“In noi c’è una moltitudine di guerrieri, che combattono nudi” “Uccideremo il Capitano”, dissero i dodici giovanetti.
“E faremo fuggire l’ombra della morte”
“La morte è negli occhi del Capitano”
“Trafiggeremo i suoi occhi e la morte scapperà come una cagna bastonata”
“Sì. Uccideremo il capitano”, dissero trionfanti.
Danzavano ancora i cuori dei ragazzi di Gallipoli, nonostante le ferite il digiuno il sonno, e nei loro occhi c’erano le ultime fanciulle brune sopra le ringhiere verniciate di fresco , e i balconi pieni di gerani.
Lasciami salire per un attimo al balcone”
“Lasciami salire alla ringhiera della luna”
“Lasciami salire fino ai tuoi capelli verdi”
Danzavano i cuori di Spariolu Pomidoru Petrich Galera e Libeccio. Nelle loro vene scorreva il sangue gentile dei gerani e negli occhi ridevano le ragazze brune e le barche colorate, ridevano i pesci e i capelli del mare.
“Verde vento verdi rami verdi barche verde mare, eccoci!”
Cantavano Palmentola, Manuele, Turlì, Agostino, Mimì, Candido e Mazzeo e nelle loro voci c’era un tremulo fulgore d’innocenza che si spandeva nell’aria come pioggia leggera di invisibili diamanti :
“Madre, accendi una preghiera azzurra”
“Madre, costruisci sette corone di fiori”
“Perché noi combatteremo sui bastioni”
“Perché i nostri cuori non tremeranno”
“E la nostra voce sarà scintillante nella nebbia”
“Piccola Vergine, soccorrici con la tua corona”
“E la tua fede”
“Perché noi manterremo la nostra parola”
Perché saremo fedeli al nostro re
Perché saremo fedeli al nostro paese, culla e sepolcro della nostra vita”
Perché saremo fedeli al seme di luce che ci generò
Ora si spargeva sull’onde sfrangiate dalle navi e s’inabissava negli smeraldi dei fondali marini quel canto di fede e d’amore. Ora l’ombra azzurra delle torri, dei fortini, dei bastioni e dell’ignavo castello era una coperta umida di mare ancora libero di navi. Ora la primavera correva nel cielo e sopra i campi di papaveri rossi, nascondendo le ali nere del vento triste della morte. Intanto le donne avevano abbandonato le case e correvano come pazze per le strade, trascinando i figli con le trecce al vento e i gridi nel cuore. Ciascuna di esse aveva raccolto una pietra nera dell’isola e la teneva ben stretta nella mano. Erano trecento pietre che bruciavano nelle loro mani e trecento preghiere che palpitavano nei loro petti. Le donne correvano nell’aria come uno stormo di uccelli che rigava il cielo più basso, come una nube di disperazione.
“Il mare ci difenderà dai veneziani a morsi di sale e di schiume”
“Le rocce saranno spade affilate”
“San Sebastiano si strapperà le sue frecce e noi le scaglieremo come un ventaglio di morte sul nemico”
“La piccola vergine dalle mammelle strappate ci darà una cintura di nebbia e l’isola scomparirà agli occhi dei forestieri”
“Sant’Elmo farà piovere fuoco dal cielo”
“E verrà la piovra gigantesca a stracciare le vele”
“E il serpente di mare per trascinare le navi negli abissi”
Le donne correvano per difendere i bastioni dell’isola e avevano un bambino in braccio dalla parte del cuore e una pietra nera nella mano libera. Le guidavano le quattro sorella: Latonia, Agata, Maria e Angela che avevano sciolto il loro sangue per farne olio bollente”.
Capitolo 22°
Qui nessuno muore
I veneziani attaccarono sul fianco sinistro della torre di San Luca dove ancora sventolavano gli stendardi rosso e oro degli aragonesi. Erano le otto del mattino, il giorno diciannove del mese di maggio dell’anno 1484 e tutto l’orizzonte si vestì di grida. Anche il mare era impazzito e ribolliva di urla , di lance, di spade, di sassi, di boati. Nel cielo si alzarono bandiere di fumo e di nebbia.
Tutta la cinta bastionata di Gallipoli fu presa d’assalto dalle triremi da carico e dalle galee rostrate, con gran moltitudine di uomini, di scale di corda e di macchine da guerra. Le artiglierie fecero solchi profondi nelle mura e i balestrieri lanciarono nubi di frecce.
Cento leoni ruggivano nell’aria con la spada sguainata e salivano sui bastioni a strappare con i loro artigli i brandelli di resistenza dell’isola. Le mura di Gallipoli cedevano sotto il feroce assalto dei leoni di Venezia. Anche i rematori tristi dalla testa rasa vennero liberati dal maniglio e combatterono con le aste della bandiera della Repubblica.
Ma sui bastioni i guerrieri nudi di Gallipoli si difendono con remi spezzati , arpioni, fiocini, sassi e catene. Urlano i leoni e bruciano come fiamme sotto i merli delle torri, risuonano i nervi di metallo, gli acuti e gli strazi dei feriti che precipitano nel vuoto. Gli assalitori montano biscagline e le lanciano sulle muraglie come tele di ragno, hanno inguini di spuma e oscillazioni di barbe ramate, ma i guerrieri nudi li respingono con lo splendore accecante e inesorabile dei loro corpi, una barricata di legni, di stinchi, di grucci, un mulinello di braccia avvezze alla fatica.
I guerrieri di Gallipoli si moltiplicano, s’allungano e si dilatano. Coprono tutto lo spazio grigio delle mura, distendono un mantello di carne sonora sulle pietre. E’ un miracolo tessuto di innocenza e di passione splendente. Ecco il ferro del cannone che infrange la barriera, Ruri è colpito tra i merli della torre di San Luca in pieno petto .
Una freccia di balestra trafigge Camaldari sul baluardo di Santo Francesco. Egli resiste con gli occhi di vetro, distende le braccia fino a formare una croce di sangue sulla muraglia, ma non si sposta di un centimetro. Altre frecce lo colpiscono prima che un angelo giallo si adagi sul suo petto e gli chiuda gli occhi.
La battaglia ora infuria presso il fortino della Madonna degli Angeli. Santachiera è ferito. Ormai la barriera di corpi umani si confonde con il rosso delle bandiere. Santachiera è gravemente ferito, ma continua a incitare i soldati-fanciulli:
“Avanti, avanti, avanti, vanti!”, gridano i comandanti veneziani spingendo gli uomini sulle scale di corde.
Una lancia si distese nel vento azzurro e abbattè definitivamente Santachiera. Egli sentì che due ali lo trascinavano via, là nelle più nascoste profondità dello Scoglio.
Altre navi assalirono il fortino di San Giorgio, altre scale di corda con uncini splendenti furono gettate sulle mura. Sotto il sole feroce spade nemiche scintillavano. Una spada accecò Arcanà in piedi sull’alto del torrione meridionale. Ed egli cadde in mare. Prima che altre lance ne straziassero il corpo un braccio invisibile lo afferrò sospingendolo nella profondità degli abissi. Poi il suo corpo trascinato dalle correnti, fresco e dimentico dell’oro e del sangue, fu ritrovato sulla spiaggia della Purità in un giorno in cui il vento trasportava nel cielo nubi rosate.
Nel fortilizio di Santa Vennerdia, i cannoni delle navi avevano spezzato le corone delle torri e scavato nella pancia della muraglia, ma Sermagistri era come una tigre dai lunghi artigli d’acciaio e non cedeva di un frammento. Dentro di lui ruggivano cento guerrieri armati e non aveva altro che le sue braccia nude. Con voce calda, profonda e imperiosa egli gridava: “Qui nessuno muore e nulla è mortale.
Se cadremo, cento , mille volte risorgeremo
Voi non entrerete mai nell’isola.
Qui nessuno muore e nulla è mortale!”
Dal mare si alzò una fiocina contro il suo corpo diritto e nudo al cielo, poi altre lance e altre frecce lo dilaniarono come un pesce spada, ma egli continuava a gridare:
“Qui nessuno muore e nulla è mortale.
Risorgeremo.”
Finchè nei suoi occhi entrò un paesaggio di donne, rivide la madre fanciulla e la sua Cristina fanciulla, attraversò passato e futuro, vide che la sua giovinezza finiva lì, sulle mura sepolcrali, dinanzi alla chiesa dove era stato battezzato, ov’era l’altare della Santa delle promesse spose:
“ Santa Vennardia, dimmi dove è fuggito il mio sposo, che lo vado a trovare”
ragazzi con le fionde entrò nell’ora della morte sotto l’orda delle triremi e delle galee veneziane , che avevano accerchiato le mura e penetravano come un arco di frecce nel cuore dell’isola.
Là, sotto la larga costa rocciosa rivide per un attimo i gabbiani accoccolati prima di spegnere gli occhi nell’ombra.
Le navi assalirono anche l’esercito dei ragazzi con la fionda, Petrichì, Pumidoru, Galera e Mimì avevano ancora la gioia che rideva nei capelli scompigliati, negli occhi pieni di sogni, nei corpi allungati, nelle caviglie, nei ginocchi e negli omeri. Combattevano ancora con la gioia Spariolu , Libeccio, Turlì e Mazzeo, nel cielo divampante di lance, di grida, di trombe, di frecce, di spari; urlavano ancora di gioia Palmentola, Mazzeo, agostino e Candido sulle rocce accoltellate, con le dita rosse e le unghia viola . Anche l’esercito nudo dei
Morirono tutti i dodici ragazzi di Gallipoli e tutti erano ebbri di continuità, di rinascita, con il mare e i fiori, con il sole e gli alberi negli occhi. Avevano dimenticato nelle gole acerbe quell’ultimo grido disperato:
“Madre , io muoio. Accendi una preghiera azzurra e sette corone di fiori”.
Capitolo 23°
Le donne guerriere di Gallipoli
Fu allora che sui parapetti dei bastioni , alla difesa dei merli delle torri insanguinate , salirono le donne. E fu come se rinascessero soldati ancora più tenaci e coraggiosi, duri e forti, con una fede più accesa. I veneziani non se ne avvidero subito, accecati dai mulinelli d’oro che un nuovo sole spargeva nell’aria, e lanciarono le scale sui parapetti. Allora la falange di donne, senza ordini da seguire , senza posizioni da presidiare, senza strategie, ma con la sola indomita volontà che tutte le donne si crescono in seno, si accesero come uno scudo abbagliante, come amazzoni con archi e frecce, e spade che ferivano quel cielo pieno di fumo. Le donne lanciarono sassi , pietre, olio bollente e ferraglia, sciolsero le scale, respinsero l’assalto. Il vento di quell’ora fatale si fece rosso vivo e in quel vento morirono le quattro sorelle di Gallipoli, Maria, Angela, Cristina e Agata. Piccole frecce di balestre spezzarono i loro corpi di ginestre, Ma in quel vento anche molti soldati del leone perirono. Morivano a decine con lo stesso grido dei ragazzi di Gallipoli:
“Madre mia, madre mia, madre mia prega per me”
E le donne non avevano più pietà , continuavano a lanciare pietre nere e olio bollente.
Più venivano respinti , più forti erano le grida del condottiero supremo:
“Cento scudi e la cresta e gli artigli del gallo!”
“Su, su, su. Salite, salite, salite.
Avanti, avanti, avanti.
Le scale,le scale, le scale”
Nessuno riusciva più a salire sulle mura di Gallipoli perché le donne erano come furie scatenate e scavavano
le carni dei soldati del Leone. Nel turbinio selvaggio delle grida s’alzava la spada e la voce dell’Ammiraglio Giacomo Marcello:
“Avanti, avanti, avanti,
su su su su, con le scale, con le scale, con le scale”.
Cos’era quell’oscura resistenza che animava le rocce e le pietre di quell’isola ormai già vinta e devastata? L’Ammiraglio Giacomo Marcello spinse la nave fin sotto i bastioni continuando a incitare i suoi soldati. Fu solo allora che s’accorse che a difesa dell’isola c’erano solo donne e bambini. Grappoli di bambini, costellazioni di sguardi innocenti. Mentre sempre più infuriava la battaglia, nel fragore delle spade . delle lance, degli scoppi e delle grida dei feriti, egli vide che le donne avevano in braccio un bambino dal lato del cuore e con la mano libera lanciavano pietre. Le donne e i bambini erano come un mare di gigli neri.
Fermate la battaglia, fermate la battaglia!, gridò l’ammiraglio Giacomo Marcello mentre vedeva sfilare sulle mura la madonna lanciatrice, la donna delle rocce, la vergine dei Sàmari, e udiva il canto della lira. Le mura danzavano sull’acqua.
Trecento ragazze suonavano la lira e le mura danzavano sull’acqua come fragili guerrieri senza scudi, senza frecce senza spade, senza tempo. Nulla poteva colpire né fermare né piegare quelle donne sui bastioni.
Fermate la battaglia!, gridò ancora Marcello.
Ma era troppo tardi. Sul mare c’era un’estasi di lame, di scale, di vessilli che invadeva le torri e i bastioni, un risuonare di voci antiche, un vago gemito di croci e di campane. Lo percorse un brivido e per un attimo alzò gli occhi al cielo cercando forse un Volto, una Voce…
Prima che il colpo di colubrina lo raggiungesse dalla Torre sbrindellata di San Luca, ebbe la percezione della morte.
“C’è un solo istante per vivere, un solo istante per pregare, ed è freddo”
Erano le undici e trenta del mattino e per l’Ammiraglio Giacomo Marcello il tempo s’addormentò sull’alta poppa della sua nave. Erano le undici e trenta del mattino del 18 maggio 1484 ed egli giaceva immemore in un sudario di seta. Farfalle gelide entrarono negli occhi spenti di Giacomo Marcello, mentre un organetto suonava. Una voce cantava ed era la sua voce di bambino:
“Devi passare…”
“Devi passare…”
“Domani…”
“Domani sarà di altri”
Erano le undici e trenta del mattino e sotto la chiglia della nave ammiraglia tremavano le alghe.
“Alle cinque s’apriranno le ali del leone
Alle cinque taglieranno le lame delle spade
Alle cinque verrà il trionfo
Ma non per te, ma non per te.
Per te si ferma il mare
Per te si ferma il cielo
Per te si ferma la battaglia.
(Fine)