C’è un elemento essenziale che in questi anni di secolo nuovo, di nuovo millennio, ha subito una trasformazione radicale, probabilmente nuovo nella dimensione della contemporaneità e non ancora compiutamente elaborato ma soltanto avvertito, percepito, sentito sulla pelle: forse è cambiato il rapporto con il futuro. Abitiamo un presente che non ha o che ha deboli tensioni di proiezione e di visione. Quasi che ogni promessa di futuro sia diventata difficilmente credibile e praticabile. Quasi che qualcosa di estremamente complesso e non ancora decifrato costringa a vivere rannicchiati mentre il tempo ci scorre addosso e intorno, con la sua solita indifferenza, con una più sfrontata prepotenza. Forse abbiamo più paura e meno aspirazioni. Stiamo sempre più idolatrando il caso. Si è sfilacciato e in altri casi lacerato il senso dell’appartenenza ad una situazione collettiva che in qualche modo costituiva un riferimento e suscitava una sensazione di protezione. Ci si ritrova a dover riformulare concetti, prassi, tradizioni, a subire crisi e traumi senza precedenti provocati dalle mutazioni costanti e radicali. Sarà perché questo tempo è un figlio di un ancora giovane Novecento, quel secolo che ha gettato fondamenta e piantato pilastri dappertutto, imponendoci per ogni cosa di fare i conti e i confronti con quello che nel suo durare è stato costruito o che è accaduto: società, politica, economia, benessere, sviluppo, sistemi formativi, organizzazione del lavoro, la nascita e la morte delle grandi ideologie, conflitti, povertà, morale, legge. Non c’è niente, forse, di quello che ora abbiamo o che abbiamo perduto, che pensiamo o non pensiamo più, che abbiamo amato, odiato, e smesso di amare o di odiare, che non appartenga al Novecento, o che non abbia trovato in esso il lievito, che in esso non affondi la radice. Tutta la bellezza e la bruttezza disegnata sui nostri volti, che scorre o che si è raggrumata nei nostri cuori, diffusa nei paesaggi che guardiamo, tutta la bellezza e la bruttezza vengono da lì. E’ stato un tempo incerto, il Novecento: di sbandamenti, a volte, di confine, di scelte coraggiose e di rinunce. E’ stato un tempo con un volto di saggezza e un altro che è sembrato spesso di delirio, di ribollenza sociale e di ristagno spirituale.
Quando vengono stagioni di passaggio, di incertezze, di crisi, di contraddizioni, di riformulazioni dei concetti e dei processi di pensiero, di trasformazioni vorticose, di alfabeti nuovi, di codici complessi, si ripresenta – nitida e grandiosa- quella figura di Paul Klee che Walter Benjamin interpreta magistralmente in un frammento di “Angelus Novus”.
E’ l’angelo della storia. Con gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. Ha il viso rivolto al passato. Un cumulo immenso di rovine è rovesciato ai suoi piedi. Tra queste rovine egli vorrebbe intrattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto, dice Benjamin. Ma una tempesta che spira dal paradiso si è impigliata nelle sue ali. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro. “Ciò che chiamiamo il progresso è questa tempesta”.
Con questa tempesta si è ritrovato a fare, inevitabilmente, i conti ogni tempo; con le contraddizioni, le deformazioni, le deviazioni del tempo della Storia; con l’esplicito e con l’implicito, con l’affiorante e con il sommerso, con il compreso e con l’incompreso, con gli eventi che accadono e si sviluppano in modo lineare, quasi chiaro, decodificabile, e con i macigni che improvvisamente irrompono nei giorni, e li travolgono, in modo misterioso, o comunque aggrovigliato.
Ma in fondo, forse la Storia si è sempre sviluppata con questa tensione tra il passato e il futuro, che si è realizzata attraverso il presente a volte in modo flessuoso, a volte lacerante. Però forse mai senza perdite, senza dolori.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 4 dicembre 2022]