L’isola e il leone (quarta puntata)

Egli continuava a guardarla con acceso desiderio. Allora lei gli disse:

“Se prendi il mio corpo un esercito verrà dal mare e squadriglie di gabbiani ti assaliranno dall’aria.”

Poi la fanciulla si alzò e corse verso l’interno dei Samari, dov’erano pini, abeti, larici e fiori bianchi e un labirinto di siepi. Egli la seguì quasi senza volere e in un breve lasso di tempo si trovarono all’interno di un giardino di rose.

“Questo è il mio giardino segreto”, disse la Vergine dei Samari.

“Qui sono raccolte tutte le anime delle creature innocenti”

Allora egli vide le grandi rose bianche dai petali un po’ sfioriti, mentre nel cielo passavano uno stuolo di fanciulle bianche senz’ali e , insieme  a loro,  molto passeri, gazze,  merli , corvi che volando fecero cadere i petali morti delle rose che, d’improvviso, si mutarono in bambini. Sorpresi, i fanciulli fuggirono via ridendo e agitando le piccole mani. Allora egli vide che sulle loro tenere mani vibravano fili lucenti di  rosso sangue:

“Perché quel sangue?”, chiese?

“Anche la rosa più bianca e pura conosce il dolore”, disse lei, e passò oltre la raggera delle rose. Sotto il suo sguardo le fronde degli alberi erano scintillanti e le gazze volavano basse con anelli d’oro nel becco, formando tanti cerchi di luce. Attraversarono i canneti gialli e verdi, e le paludi dove le rane tessevano un canto festoso, finché giunsero ai piedi di una grande duna, che sembrava una collina. Dall’alto del promontorio di sabbia egli vide una città con le sue torri, i bastioni, e il castello imbandierato. Voci cantavano in un’estasi di stendardi che invadeva le stanze del castello e arrivava fino ai bastioni turriti, mentre i campanili delle dodici chiese sembrava s’allungassero quasi ad invadere la gloria del cielo ed abbattere gli angeli nascosti dietro l’orizzonte di quella seta azzurrissima  che non aveva fine.

L’uomo dalla memoria ferita guardava affascinato e ammutolito di stupore, quando nel cielo apparvero cavalli ammassati in un fulgore di rame. E sotto il cielo vide le navi e gli parve di udire il tuono dei cannoni, il clamore delle armi, le voci e le grida dei soldati. Scivolavano dentro di sé echi di memoria, colori, oggetti, odori, e dondolavano voci:

“Cavalli, cannoni, navi, spade, voci. Qualcosa si risveglia in me, qualcosa mi rode nel petto”, disse.

“Non ascoltare il riso della morte. Là scorre precipitoso il tuo sangue verso la morte. Non ascoltare quelle voci, non avvicinarti a quelle mura”, gli diceva la vergine dei Samari.

Ma egli già non udiva più. Qualcosa di sottile e misterioso lo costringeva a rimanere immobile con lo sguardo fisso sull’isola lontana in cui gli scogli e i gabbiani si tramutavano in echi luminosi:

“Qualcosa si risveglia in me, qualcosa mi ride dentro”

“Rimani qui dove la vita è lieve e la natura un miracolo costante che si rinnova ad ogni levar del giorno”

La fanciulla gridava di fronte alle torri e le torri s’alzavano in un cielo di fuoco.

“Rimani qui dove la morte non esiste”.

Ella gridava di fronte alle navi e le navi si laceravano contro il vento.

“Là dove tutto sembra potenza e fasto, gloria e ricchezza, l’anima è arida e nuda”

Ella gridava di fronte ai campanili e i campanili si torcevano nella musica delle nuvole.

“Rimani qui , nel sogno dei Samari, dove l’anima è libera e canta”.

Ella gridava, ma la scintilla di sole che ora feriva il mare e lo insanguinava aveva rapito l’anima dell’uomo senza memoria. Egli non l’ascoltava più. Ai margini del sogno che si spezzava, che si scioglieva, sentiva ch’era rinato un desiderio struggente di potere che danzava nei suoi occhi infuocati, un desiderio più forte d’ogni altro che gli stava soffocando la gola in una morsa di angosciosa ebbrezza di autoesaltazione. Era quella scintilla di sole ora che lo lusingava e un’altra voce che gli sussurrava: “Guarda, l’isola è vicina. Basta che allunghi una mano ed è tua. Prendila!”

“Guarda la sua straordinaria bellezza!

“E’ l’isola di Venere”

“E’ l’isola della luce!”

Ma lui non vedeva altro che l’esplosione della luce che si diramava per ogni dove.

Capitolo 16°

Uccidete il capitano!

Erano rimasti in pochi a difesa dell’isola e quasi tutti giovani ignari, armati alla meglio. I combattenti anziani, esperti d’armi, faticavano a riaccendere i piccoli fuochi di speranza. La volta del cielo era carica di un’atmosfera plumbea , di sconfitta, di rassegnazione e di morte.

“La verità – disse Sermagistro Sermagistri – è che fra noi c’è gente che ha poca fede.

“Vi sono dei traditori che parlano di resa”

“ Io vi dico che noi combatteremo finché ci saranno le pietre di questo Scoglio e finché avremo voce di gridare e morire per la libertà”

“Le pietre di quest’isola hanno più fede dei vostri cuori?”

“Abbiamo solo una possibilità di resistere e salvarci”, disse Antonio  Arcanà.

“Quale, quale, dì, dì”

“Uccidere il Capitano”

“Sì. E’ da lui che viene la forza del nemico”.

“Certo, certo. E’ vero, è vero, è vero”, gridarono tutti.

“Ma come faremo a ucciderlo se la sua nave se ne sta lontana dai bastioni?”

“Uno di noi salirà sulla nave e lo ucciderà.”

“Uccideremo il capitano e saremo liberi perché i suoi soldati fuggiranno come pesci impauriti”, disse Pietro Santachiera

“Libertà, libertà, libertà, libertà”, gridarono i giovani ignari con i pugni levati al cielo e sulle loro facce stupite e innocenti rifiorì l’ombra della speranza.

Ma le pareti del cielo erano ancora tese negli animi delle donne di Gallipoli che osservavano in silenzio le bandiere stracciate, le mura sventrate, i crocifissi e le immagini dei santi e della Madonna coperte di fumo, cenere e sangue. C’era un attonito silenzio obliquo nell’aria e le donne erano stanche di pregare , erano stanche di sgranare rosari di misteri e di tenerezze per i piccoli affamati, erano stanche di angosce e sofferenze, erano stanche di aver paura. Avevano un solo desiderio: uscire dalla propria anima troppo gravida di dolori, troppo carica di tremante pietà di se stesse.

Solo le quattro sorelle continuavano a correre da un santuario all’altro, a spargere olio santo e musica nell’aria, a fondere speranze e lacrime nei loro riti e nelle loro preghiere. Si recarono alla Madonna del Cassopo per interrogare gli angeli del cielo dove non viaggiavano le rondini , e dove i convolvoli e le campanule morivano senza balconi da scalare , né c’erano scale per raggiungere le stelle. Poi incontrarono una vecchia cieca e bendata, disperata,  a cui erano morti sette figli pescatori in un naufragio, le baciarono le mani e le chiesero tremanti: 

Resisteremo?

Avremo libertà?

Torneremo a volare nel sole?

Ridiventeremo conchiglie profumate?

Con le labbra mute d’argento facevano sette orazioni a Cristo contemplando l’immagine maestosa e fredda delle Vergine Celeste . Le quattro ragazze pregavano intensamente senza profferir parola a far moto di labbra, soffocando i gemiti e i singhiozzi, ma avevano il volto rigato di lacrime ed erano lacrime che bruciavano, ma riuscivano a trattenere il pianto nella gola. La Vergine celeste dal lungo collo striato di sangue le guardava senza occhi , con le labbra serrate, severa e di gesso. Esse, insieme alla madre dei sette pescatori naufragati, e morti in mare,  continuavano a pregare con mille aghi nel cuore mentre le lacrime cadevano copiose sul sagrato ed erano come un lago di rose ferite.

Fiore eterno , supplica del perdono

Vergine Santissima

Fiore divino, fiore del sospiro

Vergine Santissima

Rosa celeste di mare

Rosa di tutti i destini

Rosa profumata d’amore

Santa, santa, santa.

Vergine del dolore

Così pregavano senza far sospiri di labbra mentre dal cielo venivano i gabbiani grigi e il tuono dei cannoni sputava il ferro nero di morte. Esse s’inginocchiarono spargendo pensieri di fiori, sciami di luce:

Fiore del cielo

Piccola Vergine sul mare

Finalmente , come ispirate , le quattro sorelle si dirigono verso i bastioni e s’affacciano sul mare. Nei loro cuori pissidi di rose aulenti s’aprono e cantano, anime di perle e di profumi azzurri si spandono. Gridano finalmente tutte le loro illusioni, liberano nell’aria nuove speranze che volano nel sole:

Il mare di vetro ferirà le navi nemiche

Esse fuggiranno sotto una pioggia di fuoco

Il cielo si aprirà e manderà una pioggia ardente che affonderà le navi

Le navi scivoleranno giù negli abissi dove stanno le dodici colonne che sorreggono l’isola

E le madri torneranno ad allattare i loro figli

Con le magnifiche tristi malinconiche vaghe nenie

E i bambini dormiranno

Sotto un cielo di mille campanelli

Chiaro sole di colombe sarà con noi

Torneranno gli angeli buoni

Per illuminare le vie  e le corti

E verranno dal mare mille fragili guerrieri

Senza scudi e senza lance

E nessuno potrà fermarli

Anche la piccola vrgine salirà dalle acque in festa

E il mare andrà incontro ai pescatori in festa

Festa festa festa festa

Altre voci si uniscono a quelle delle quattro sorelle Latonia, Angela, Maria e Agata e tutto il cielo si fa pieno di voci, un crepuscolo di voci.

“Uccidete il Capitano, uccidete il Capitano, uccidete il Capitano!”, grida una voce virile dall’alto dei bastioni riempiendo il cielo di tuoni e di  nembi.  E la voce echeggia di corte in corte, di strada n strada, di vicolo in vicolo, di torre in torre, di fortino in fortino, di loggia in loggia, di campanile in campanile… Tutti sembrano catapultati in un’ebollizione di deliri, tutta la città va sulle mura per uccidere il Capitano, mentre il singhiozzo rombante che ora sale in alto e squarcia le nubi con tuoni e lampi non si riesce a capire se sia quello di un angelo o di un demonio.  

Capitolo 17°

Una scala di luce

Era la vigilia del terzo giorno di assedio a Gallipoli e l’isola era diventata grigia. Ora saliva la nebbia e si potevano scorgere solo vaghe ombre: la sagoma del castello con il Comandante Filomarini che aveva murato le bocche dei cannoni, le torri spezzate dei bastioni, il verde silenzio delle mura sventrate.

Dal silenzio della notte che palpitava sul mare triste , Malipiero udì cadere un rintocco di campana che si dissolse rapidamente com’era venuto. Ripensò quasi non volendo alla sua Venezia, al quieto mare della laguna che distilla una musica diversa, un odore diverso, ai ponti di Venezia che sembrano fatti di luce, ai gradini di quei ponti di pietra che cantano eterne canzone d’amore. Pensò a lei, a una fanciulla, una bambina con il corpo disteso sulla riva, pallido, vivo, teso, ridente e poi spezzato come un sottile filo di nulla. Quel corpo che un istante prima era gioia, fatica, freccia lucente, sudore, amore, ora era carne molle, moneta ghiacciata per il mistero di Dio. Era il corpo di sua figlia, Giulia,  che avrebbe voluto raggiungere, inseguire  lassù, con una scala di luce. Possibile che in un momento così intenso e tragico non gli rimanessero che fantasmi! Restare solo coi fantasmi, questo era il suo destino.

Che altro era rimasto al condottiero Giacomo Marcello se non un tessuto di stoffe e di carne senza più volontà? Quali arti, magie, sortilegi avevano sottratto l’anima dell’Ammiraglio al suo corpo? Malipiero l’aveva intravisto come un fantasma avvolto sotto i guanciali con la mente che vagava in un mondo invisibile. Era ormai solo un ectoplasma. E anche a lui stava accadendo qualcosa di simile, qualcosa di oscuro e incomprensibile. Possibile che ancora non aveva preso l’isola con settanta navi e cinquemila uomini , contro poco più di duecento uomini ch’erano dietro i bastioni? Doveva scuotersi, ribellarsi, agire, raddoppiare gli sforzi e la volontà. All’alba avrebbe sferrato l’attacco decisivo.

Di vigilie di guerra sul mare, in quel deserto liquido, nell’esilio delle notti di mare, conosceva ogni cosa. Sapeva che d’un tratto  possono nascere smeraldi di luce e farfalle dai mille colori sbocciare come in un sogno, che uccelli dalle ali enormi potevano coprire tutta la nave, che cavalli d’alabastro danzassero insieme ai delfini cavalcando le onde, che guerrieri millenari, con le trombe ricurve inseguissero la voce delle sirene lasciandosi trasportare dalle calde infinite correnti sottomarine. Erano incomparabili sensazioni che solo i marinai e i poeti conoscono. E’ il rischio di trovarsi di fronte all’indecifrabile, un’immensa onda alta come una montagna,  misteriosa creatura dall’anima azzurra che il mare può suscitare in qualsiasi momento. Spesso dormendo egli sognava un gran deserto confuso di sabbia e di uomini, nel deserto c’erano le dune, i coni di velluto, il mare prosciugato e gli astri della notte che scintillavano. Egli vedeva nascere una scala in quel deserto , una scala che dalla terra giungeva al cielo e lui salendola si sentiva l’anima leggera.

“Ecco che cosa serve per prendere l’isola! Una scala, una scala invisibile, una scala di luce!”, disse fra se , e si recò da Seguntino per avere notizie sullo stato di salute dell’Ammiraglio. Il Segretario era a poppa con la lunga barba inargentata sotto la luna: “Ora ha gli occhi pieni di nubi” – disse- “ Ma prima, prima parlava di una città da conquistare. Forse sta tornando in se.”

La luna danzava sulla barba di Seguntino che inargentava il mare notturno.

Domani all’alba l’isola sarà nostra. Non ci sarà pietà per nessuno”, disse Malipiero. E il suo volto era impassibile, di pietra, immemore di aver perduto una figlia di dodici anni solo pochi mesi prima.

Capitolo 18°

Dormi,  dormi,  dormi

L’uomo dalla memoria ferita ora sapeva chi era e tentava disperatamente di uscire dai margini del sogno. Ma una voce lo inseguiva e veniva da lontano. Era una voce trasportata dal vento e gridava aiuto. C’era anche angoscia e solitudine in quella voce al di sopra del mare. Improvvisamente la voce fu su di lui e gli si aprì fra le mani. Allora egli vide le ceneri del re-pescatore spargersi  nell’aria e mutarsi in ombre, figure, suoni. Dietro la voce che continuava a gemere nelle mani dell’ammiraglio venivano i suonatori di cembali e il corteo delle donne vestite di  fiori. Le donne avevano le braccia in croce e una cantilena di lamentazioni e di dolori nel cuore. E ora anche il mare gemeva e cantava una nenia funebre.

“Il re-pescatore è morto”

“Ardono i ceri sacri delle nubi”

“Il re-pescatore è morto”

“Gridano le radici della terra”

“Il re-pescatore è morto”

“Piangono le rocce, gemono le onde”

“Il re-pescatore è morto”

“Sono fredde le labbra delle fanciulle vergini”

“Il re-pescatore è morto”

“C’è dolore sugli alberi azzurri”

“Il re pescatore è morto”

“Hanno smesso di volare i pesci e i delfini nel mare”

“Il re pescatore è morto”

“Sono immobili le sette bandiere al vento”.

Poi vide la donna delle rocce con il cuore squarciato e, dietro di lei, erano l’uomo dalle tre aste e il mercante cieco. Tutti e tre cavalcavano il mare su destrieri fantasmi, attraversavano il buio e la profondità della notte ed entravano nel regno degli abissi. Egli non poteva vedere al di là di  un sentiero in cui baluginava una fiammella azzurra che ardeva incessantemente, ma sapeva che  oltre quella porta invisibile si entrava nella morte. E qualcosa di misterioso, forse le innumerevoli mani e voci del vento che lo sospingeva verso quella tenue lingua d’azzurro , senza che lui potesse opporsi . Scivolava silenzioso nella zona senza ritorno, dietro il piccolo corteo. Allora gridò il suo nome nell’aria come una lancia acutissima :

” Io sono l’ammiraglio Giacomo Marcello! Fatemi uscire da questo sogno di morte!

Gli rispose un canto o forse un lamento del  mare, gli rispose l’eco di un galoppo di cavalli grigi sulla scogliera delle Uccolette. Allora gridò con voce più alta e fece alzare i venti che erano nascosti nella sua gola che subito uscirono con violenza, solcarono con fragore le onde del mare e s’abbatterono contro gli alberi di viali, crivellando le foglie, spezzando i rami.  Egli gridò per la terza volta e udì il proprio cuore battere impazzito. S’erano spente le voci, erano  fuggiti i venti, erano disparse le ombre e gli alberi. Dal silenzio egli vide rinascere il frate-buffone che suonava nella notte un flauto d’oro.

“Aiutami a uscire dal sogno”, disse al frate.

Che si posi sul tuo petto la luce dell’arcobaleno, fratello!“, rispose il frate.

“Rimani qui con noi e sarai felice”

“Sono l’ammiraglio Giacomo Marcello!!”

Raccogli tutta la luce dell’arcobaleno bambino che dorme”

“Tu non vuoi capire, frate. Devo raggiungere le mie navi, devo conquistare l’Isola. E’ un ordine che mi è stato dato. Devo obbedire. Aiutami, ti prego.”

Il frate buffone aveva la bocca larga e amara come una ferita. Lo guardò con gli occhi limpidi, acuti, azzurri.

“Giacchè tu lo vuoi , io accenderò l’isola nei tuoi occhi , farò schiudere come una conchiglia la città , che si aprirà ai  tuoi desideri, ma tu dovrai dormire.”, disse il frate buffone e cominciò a suonare il flauto d’oro. Le lievi note prima gentili, dolci e sottili, s’ampliarono come un suono di venti cimbali sbriciolando le rocce e disvelando l’isola.  Allora per un attimo egli potè vedere il palazzo del Governatore spagnolo, il castello, il giardino dei limoni della castellana e gli asfodeli e la barbacaria che crescevano ai piedi del fortino della Madonna degli angeli. Il cielo sopra di lui era tutto un brulicare , un vortice di fosfeni e la musica si spargeva nell’aria come un sorriso.

“Dormi, dormi, dormi”, gli diceva la fanciulla dei Samari

Nè il sorriso della luce, né il calore del fuoco, né l’anima del vento, né il raggio furtivo della luna feriranno il tuo cuore.

“Dormi, dormi, dormi”

Ed egli chiudeva gli occhi lasciandosi trasportare dalla musica del frate buffone. Ma quando li riaprì vide sulla muraglia piccole donne guerriere che si lanciavano contro di lui ed avevano un bambino sul lato del cuore e una pietra nera nella mano destra. Allora richiuse gli occhi e udì una moltitudine di voci che gli parlavano:

“Scarlatto cinabro incenso”

II tuoi vestiti drappi preziosi di porpora e seta

Gli occhi tuoi son fonti vive

Apri gli occhi è svegliati

Dormi dormi dormi

Ecco le due anime, notturne e diurna, si ricongiungono in una sola

Stai per svegliarti

No, no, non ascoltare

Dormi, dormi, dormi

Svegliati!

Dormi!, dormi!, dormi!

Morirai sotto le mura , le dicevano le donne amazzoni dell’isola

Apri gli occhi, svegliati!

Dormi, dormi, dormi

Ecco la donna delle rocce con la testa mozzata del re pescatore

Guarda! E’ la tua testa, è la tua testa!

“Dormi, dormi, dormi!

Puoi mutare il sogno in una vita felice

 Svegliati! Conquisterai l’isola d’oro

Dormi, dormi, dormi

Svegliati, sarà tuo il tesoro di Gallipoli!

Dormi, dormi dormi

Tu sei potente come un Dio

Sei invincibile

Tu sei il leone di Venezia

Non ascoltare, non ascoltare

Dormi, dormi, dormi

Morrai sotto le rocce affilate e grigie, dicevano le donne amazzoni di Gallipoli

Sei il conquistatore dei mari

Sei l’ammiraglio Giacomo Marcello

Ammiraglio!, gridò Alvise Seguntino

Oh, Seguntino, disse lui.

Vi siete svegliato, finalmente!

Capitolo 19°

L’alba del terzo giorno

Sui bastioni i ragazzi erano come grani d’incenso e tastavano le fionde come tanti piccoli David, mentre da terra era ripresa la danza dei cannoni veneziani. Era l’alba del terzo giorno e la luce discopriva il cuore crivellato di Gallipoli. La  luce batteva sempre nell’unica direzione che conosce, senza tempo , né memoria. Era una luce grigia che si spandeva nelle corti e nei vicoli, sulla cortina e sulle muraglie. Era una luce che nasceva da un seme oscuro, dal pianto della notte. Ma i ragazzi sulle torri e sui bastioni non lo sapevano e continuavano a sognare la gloria tastando le fionde. Nei loro occhi bambini ballava la lunga notte di veglia e i loro cuori assonnati cantavano una sorta di nenia:

Voglio dormire, voglio dormire, voglio dormire

Dormire e nuotare, dormire e nuotare

Nuotare nel mare della Purità , nuotare nel mare della Purità

Voglio giocare nel mare e dormire , giocare e dormire, are e ire

I loro cuori sognavano di andare nel mare, freschi liberi e leggeri  come i pesci e nel mare dormire, dormire…Vennero Sermagistri,  Arcanà e poi Santachiera , Ruri, Camaldari, e il General Sindaco con la tuba di raso nero. Avevano visto il sangue sparso sui gradini della cattedrale, i bambini con gli occhi sbiancati , i volti duri e tesi delle donne, avevano visto che il cielo era una danza di coltelli , avevano visto i velieri avanzare con i vessilli del leone fiammeggianti e le trombe d’argento sugli alberi. Nei loro occhi c’era ormai oscurità per una battaglia che si faceva sempre più feroce , più triste, più disperata. Guardavano le pietre della loro isola, ma non avevano il coraggio di guardare gli occhi dei fanciulli che mandavano a morire,  quei giovanissimi combattenti innocenti che sarebbero stati immolati sull’altare della loro piccola patria. Speravano che da quelle pietre dure scure eterne, che sudavano anch’esse dolore, potessero  nascere nuovi guerrieri, nuove speranze, un messia, un volto divino che l’avrebbe salvati.

Ma invano.

Il cielo era sempre più grigio quando si avvicinarono ai ragazzi che erano sui bastioni ansiosi di parole di speranze, e dissero loro: “Ormai non ci saranno né mare né muraglie che possano evitare lo scontro, l’ultimo scontro”

“I veneziani avanzano con tutta la loro flotta di navi fino a coprire il mare”

“Avranno lance più dure, cannoni crudeli, grida feroci”

“Ci  assaliranno da tutte le parti”

“Dovremo resistere o morire”

“Morire combattendo significa sfidare la morte”

“Vincere la morte”

“Significa continuare a vivere”

“ E noi continuiremo a vivere perché non abbiamo paura della morte”

Perché morire? , dissero i ragazzi alzandosi tutti insieme nel cielo e sfidando le palle dei cannoni che continuavano a imperversare.

“Noi vogliamo vivere liberi ,qui,  nel nostro scoglio”

“E’ bello svegliarsi al mattino e scoprire che sei vivo”

“Vogliamo  rivedere il mare il sole le strade i gabbiani”

“E’ bello giocare e ridere, ridere e giocare”

“Vogliamo rivedere le ragazze con le bocche di melograno”

“Vogliamo rivedere le ragazze di Gallipoli con le gole rose, i denti di fiumi d’avorio, i capelli di cieli notturni ornati  di foglie d’ulivo

“Noi vogliamo vivere!”, dissero Palmentola Mazzeo Agostino Candido e Mimì.

“Noi vogliamo vivere!”, dissero Petrichì Galera Libeccio e Turlì

Noi vogliamo vivere!, – dissero Spariolu Manueli e Pommidoru

“Chi vuole la nostra morte?”, dissero tutti e  dodici i ragazzi di Gallipoli,

“Il Capitano delle navi veneziane?”

“Bene. Allora noi uccideremo il capitano.”

“Sì. Uccideremo il capitano”, dissero in una sola voce.

“Combatteremo per continuare a vivere, non per morire!”

Nei ragazzi di Gallipoli s’erano spenti d’un tratto timori e paure e nei loro sogni ora vedevano nel cielo basso e annerito dal fumo una squadriglia di cavalli bianchi, con tanti cavalieri dal mantello nero e, una croce d’argento a otto punte sui loro petti che avanzavano fieri e possenti verso di loro in un candore immemoriale.

“Vedete?” , dissero. “Anche i cavalieri del cielo sono con noi.”

Intanto negli occhi delle quattro sorelle,  Latonia, Maria, Agata e Angela, tremavano le alghe verdi e i remi delle navi del Leone che facevano l’onda spumosa recuperando i corpi morti delle sirene.

“Nella coscia dorata del leone il sole diventa nero”

“La luna diventa sangue tra le cosce della fanciulla”

“Oh, tenera bambina , su di te è partita la freccia come un arcobaleno di sangue”

“Le galere veneziane t’han rubato i capelli e il grano del sole”

“Oh, povera bambina, povera bambina!”

Coi capelli ondosi di brezze le quattro sorelle corsero sui bastioni  e mentre correvano chiamavano tutte le altre donne:

“Venite, venite, venite, venite!”

“La freccia è nell’aria, la freccia è nell’aria!”

“Ah, ragazze, ah,  ragazze, quante navi, quante navi!”

“Ah, ragazze, ah , ragazze, quanto sangue, quanto sangue!”

“Ah, ragazze, ah, ragazze, quante navi, quante navi!”

“Sui bastioni, sui bastioni, sui bastioni, andiamo sui bastioni!”

Capitolo 20°

Un Dio pieno di collera

Sull’alta poppa della sua galea l’Ammiraglio Giacomo Marcello incitava gli uomini con la spada tesa a ferire il cielo immobile. Splendeva la spada sulla schiena verde del mare e le onde scoppiavano in violenti ventagli di spuma sotto l’impeto della ciurma dei rematori.

Egli era ritto , imperiale, con l’elmo e la corazza rilucenti, s’innalzava come un Dio pieno di collera e disperazione sull’isola dalla volontà misteriosa, insistente, muta, condannata, racchiusa tra scogliere aspre e muraglie faticose; egli ondeggiava come un’arma definitiva sopra il movimento perenne del mare. Egli incalzava le acque , spingeva le navi verso rive insormontabili, infrangeva l’oscura resistenza dei sogni , proiettava  la sua follia di distruzione contro i richiami le voci le ombre del sogno e delle sue visioni.

Egli gridava per sommergere le risonanze del suo profondo misterioso cuore di tenebra e il suo grido era di una tale vastità che faceva fuggire i pesci verdi sotto le carene delle navi, disperdeva le illusioni di vittoria dei ragazzi di Gallipoli , intimoriva la maestosa fierezza di Ruri Sermagistri Arcanà Camaldari e Santachiera, spezzava il silenzio di calce delle case , faceva urlare i gabbiani sotto l’arco di ferro dell’ultimo baluardo del Cavaliere di Santo Francesco.

Sotto la spinta dei forzati dai capelli rasi e dei mussulmani con il ciuffetto ondeggiante sul cranio lucido, sotto la spinta dei buonavoglia dai lunghi mustacchi , le vele erano fiamme bianche e il Leone di Venezia ruggiva a prua spaventando le acque.

Disperato violento inesauribile , egli agitava la spada e gridava come un bambino che assale la gloria per sfuggire alla solitudine, al respiro del destino, alla morte.

“Cento ducati e la mia spada per il primo uomo che scavalcherà le mura e vi pianterà il vessillo di San Marco”

“Cento ducati e una tazza azzurra di cristallo del Libano”

“Cento ducati e una coppa d’argento dell’isola di Creta”

“Cento ducati e una danza di fanciulle”

“Cento ducati e un anello d’oro”

“Cento ducati e un delirio di nardo”

Le grida di incitamento dell’ammiraglio correvano di nave in nave, di albero in albero, di coperta in coperta, di vela in vela. Le udì il comandante Loredano e il suo balestriere Giovanni da Cattaro.

“Aspetta la mia bella a Venezia, aspetta tutte le notti la gloria e l’amore”

“Aspetta la luna a Venezia , aspetta tutte le sere la danza e il delirio”

“Aspetta la mia bimba a Venezia, aspetta un anello d’oro e una tazza azzurra”

Ora il sole saliva rompendo la trama del cielo, il sole s’apriva  pian piano come un grande immenso girasole rosato. E nel sole l’Ammiraglio Giacomo Marcello continuava a urlare , ad incitare, non si placava quel delirio di distruzione che lo pervadeva ormai senza più fine. Anche Malipiero , che aveva tessuto tutta la notte collane di pensieri per fabbricare scale di ragno invisibili che arrivano fino al cielo, vide che quel delirio  nudo richiamava pietre e lance nascoste tra i merli delle torri, vide che la morte danzava nel suo sangue. C’era nell’aria un incalzare di campane immobili e di frutti di silenzio, che celavano un agguato, miraggi confusi e definitivi.

“Che una sentinella protegga l’Ammiraglio e ne oscuri l’orizzonte”

“Che una sentinella si pongo tra l’Ammiraglio e la morte”

Gridava Malipiero, ma la sua voce era coperta dalle urla dei soldati  dagli schiocchi di nerbo dell’aguzzino , sempre più serrati, che laceravano le carni dei vogatori, dai gridi di battaglia dello stesso Marcello. Intanto la flotta di navi s’era avvicinata al torrione circolare di San Luca , ai piedi di un’aspra terrazza di rocce e di ardenti trapezi di luce.

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