Il rischio di questo equivoco, che pone l’artista in una posizione comunicativa quanto meno ambigua, offuscandone l’autentico messaggio, lo corre, in vita, come testimoniano le tante occasioni di presentazione e discussione delle sue opere, anche Paolo Vincenti, la cui scrittura poetica e letteraria si alimenta di una creatività prolifica e rigenerante e di un impegno intellettuale per niente riducibile agli schemi tradizionali. Ma egli non si scoraggia davanti a tale rischio, che intuisce e volutamente ignora. Anzi, per così dire, gioca d’anticipo, non solo revisionando i propri testi già pubblicati e riproponendoli dopo un bagno di quella che definisce «pulizia formale», ma anche sottoponendo la propria ispirazione ad una decifrazione auto-critica tanto puntuale quanto spietata. Ne nasce una scrittura per molti versi performativa, in cui la presenza dell’autore è trascinante, al punto da coinvolgere il lettore in un percorso conoscitivo e creativo inedito, che l’autore sceglie di guidare, con umiltà e impegno certosino, chiarendone empaticamente ogni passaggio. È ciò che avviene in questo Bar Florida, ed è ciò che è avvenuto di recente con Al mercato dell’usato (Catalepton) (2021): due pubblicazioni «in stretta continuità» dove l’Autore pone mano al materiale già pubblicato con la medesima esigenza di perfezione non solo formale, ma conoscitiva. Andare oltre il già scritto, con un senso di inadeguatezza, ma anche di potenza ri-creatrice, “lasciar parlare la parola da sola nello scritto”, avrebbe detto J. Derrida, per poi poterla riafferrare come oggetto del desiderio. Un’esperienza che ci piace definire semplicemente scrittura complessa e che si traduce in un azzardo, giacché comporta il rischio dell’incomprensione, della perdita di qualche passaggio fondamentale, se il lettore non riesce a penetrare la sottile autoironia che l’attraversa («L’impossibilità di avvicinarmi al genio, di sfiorarne l’ala, ha perseguitato in passato i miei giorni […] Oggi finalmente affrancato dall’avvilimento […] pacificato e consapevole […] di essere quello che l’immenso Leonardo definiva un “bon litterato sanza naturale” dove al termine natura si potrebbe giustapporre quello di ingegno» dice di sé, con ineguagliabile verve, nella Premessa dell’Autore alla presente raccolta).
Paolo Vincenti è autore che assegna al linguaggio un ruolo di primo piano. La sua vasta produzione poetica e letteraria, affiancata egregiamente da quella propriamente saggistica del ricercatore, si alimenta di continue sollecitazioni colte e di richiami puntuali agli universi linguistici più vari: dai classici greci e latini, vissuti nel presente quotidiano come memoria etica e non come semplice riattualizzazione, alle suggestioni verbo-visionarie del postmoderno e della autonomia delle forme artistiche, alla tentazione, mai sopita, della riscrittura come reinvenzione. Nella presente raccolta, forse più che in altre, il linguaggio apre, per Vincenti, ai mondi possibili del letterario e ai territori dell’alterità del quotidiano, con cui l’Autore instaura una relazione dialettica ricca di riflessioni e aperture, ponendoci di fronte a esempi spiazzanti di intertestualità attiva ed operante. Il medium totale del linguaggio, come impasto di parole e di richiami storicamente determinati, e come forma/sostanza che rompe le distanze cronologiche per farsi continuità eternizzata e continuamente riattualizzata nei suoi contenuti più dirompenti (dal mito alla satira),si potenzia in una scrittura intesa sempre come esito estremo del bisogno di confronto e di critica. In questo libro, infatti, Vincenti sembra potenziare quelle doti espressivo-comunicative e ricettive capaci di metterlo in relazione proficua e critica contemporaneamente con più autori, antichi e moderni, da Erodoto ad Eraclito, da Bulgakov a Salgari, dall’istrione di William Pryn e al vampiro di Polidori, fino alle visioni incontenibili e alla vicenda esistenziale di G.K. Chesterton. Autori che riemergono dalla insaziabile cultura letteraria di Vincenti e che entrano con leggerezza nel ballo infinito delle citazioni e dei ritorni, dove ogni richiamo diventa interpretazione e crea nuove dimensioni. Un mondo sommerso che si risveglia e riemerge attraverso l’acuta e prorompente provocazione linguistica di Paolo Vincenti, ben convinto dell’assunto postmoderno che ogni scrittura è ri-scrittura. Ed implica decostruzione e differimento, o differenza, per dirla con J. Derrida. Perciò Bar Florida si propone come un gioco semantico che apre a molte determinazioni, un titolo ricavato ‘per esclusione’, come documenta lo stesso autore nella Premessa, e una raccolta di scritti in versi e in prosa in parte già pubblicati, ma mai assestati e sempre riveduti dall’Autore che li considera oggetto di una vera e propria ossessione perfezionista, ma anche di una sfida semiotica, giocata al limite della visione sincronica (forse di memoria desaussuriana), in cui la lingua e il suo esercizio sono veicolo indiscusso di senso. Infatti la ricerca (che, a volte, si fa vero e proprio inseguimento) del senso costituisce la cifra dell’intera opera letteraria e poetica di questo intellettuale rigoroso e artista libero da condizionamenti di luogo e di tempo, la cui attività instancabile e provocatrice incrocia le congiunture culturali più accattivanti e suggestive del passato e del presente, scontrandosi, come è giusto che sia per l’artista e per l’intellettuale autentici, non solo con le più trite visioni del conformismo d’antan, ma anche con la “banalità del bene” del lettore medio e volenteroso. Andare, con Nietzsche, oltre queste due derive è il vero obiettivo e il grande merito della scrittura di Vincenti, mai appiattita sull’ultima immagine e sempre rivolta a costruire decostruendo, assimilando e lanciando oltre il confine tutte le visioni e suggestioni che l’hanno determinata e la determinano. Una scrittura che ci piacerebbe definire ‘postmoderna’ se non fosse che tutte le etichette sbiadiscono al sole della lettura diretta. E che quest’ultima è poi l’unica autentica barriera critica capace di farci penetrare i significati dei testi. Di qui l’azzardo, e il cimento, di una sorta di certezza impossibile, di un continuo rimescolamento delle carte, che il lettore e l’autore necessariamente avvertono nell’incontrarsi all’insegna di questa scrittura che si alimenta di richiami diversi e profondi. Una scrittura in bilico tra riflessione e ironia, sempre aperta alle suggestioni dell’immaginario colto e della ricerca estetica. Complessa, appunto. Una scrittura di cui Paolo Vincenti è cultore e iniziatore, nella sua Bottega del rigattiere o Al mercato dell’usato, come nel Bar Florida, luoghi ‘del pensiero’, dove si forgia la scrittura del futuro, che nulla tralascia del passato, mentre obbliga il presente a dileguarsi sotto la sferza di un’autocritica sarcastica e dissacrante. Una scrittura che aspira al volo ininterrotto e coerente della libertà. Perciò Paolo Vincenti è sempre più in là della sua scrittura, pronto a progettare e riprogettare nuovi universi letterari e immaginativi, tanto imprevedibili, nelle loro interconnessioni, quanto pienamente aderenti all’esigenza conoscitiva del lettore e al saldo impegno intellettuale dell’autore. Una scrittura fertile, frenetica e puntuale, come quella stigmatizzata da Roland Barthes, in un suo famoso scritto autobiografico, con questa frase: “ Où aller? J’en suis là” (Dove andare? Io sono già là.)
[Prefazione a Paolo Vincenti, Bar Florida, Agave edizioni 2022]