di Anna Stomeo
Il file, dal titolo Bar Florida, che Paolo Vincenti mi consegna, col privilegio di una prima lettura e l’impegno di un primo commento, è denso di scrittura e di richiami. Già al primo sguardo distratto, ne rilevo la consueta complessità (l’alternarsi di poesia e prosa, le citazioni, le riscritture e gli adattamenti) e mi approccio ad una lettura che prevedo impegnativa, ma che so comunque coinvolgente, giacché la complessità non è mai per Vincenti sinonimo di mera giustapposizione.
Conosco Paolo Vincenti da poco/molto tempo, l’ho scoperto poeta e scrittore inquieto e raffinato, acuto cultore dei Classici greci e latini, animato dal demone della sperimentazione e saldamente ancorato ai canoni imprescindibili della ricerca. Ho recuperato la lettura di gran parte dei suoi scritti di poesia e di prosa pubblicati nell’arco degli ultimi quindici anni e ho intavolato con lui una conversazione a tutto campo sulle impervie modalità di fare arte, letteratura e cultura nel mondo intellettuale salentino che ci circonda. Un mondo riscattato dalla globalizzazione all’ipoteca di quel depensamento di cui parlava Carmelo Bene, ma, per molti versi, ancora caratterizzato da un conformismo di ritorno, spesso incapace di apprezzare la pluralità e la complessità degli approcci e delle suggestioni, anzi spesso pronto a scambiare pluralità e complessità per un banale eclettismo o per una rassicurante e distanziante eresia. Un equivoco interpretativo, questo dell’eresia, di cui sono, e sono stati, vittime molti autori salentini, compreso, post mortem, lo stesso Carmelo Bene, ancora di recente etichettato da qualche sedicente critico suo conterraneo come eretico (ma eretico rispetto a cosa?) e collocato, con inspiegabile ‘orgoglio’, tra le ‘altre eresie salentine’ (?). Come dire: non comprendo e non seguo l’essenza della tua proposta artistica, che, comunque, accetto ed esalto, ponendola nel ‘limbo’ dell’eresia e tenendola così alla dovuta, ‘civile’ e conformistica distanza.