di Antonio Lucio Giannone
Arnaldo Bocelli ha seguito ininterrottamente lo svolgimento dell’attività letteraria di Girolamo Comi per oltre un trentennio, dedicando una serie di accurate recensioni a quasi tutte le sue raccolte di versi apparse tra il 1931 e il 1960 e contribuendo in maniera determinante alla fortuna critica del poeta. Da questa “lunga fedeltà” nacque un duraturo rapporto di collaborazione e di amicizia, come dimostra anche il carteggio tra i due letterati. Di Comi sono state conservati quarantuno pezzi in tutto, tra lettere, cartoline, biglietti e telegrammi, inviati tra il 1931 e il 1968, l’anno stesso della sua morte[1]. Di Bocelli invece restano soltanto sette missive, scritte tra il 1950 e il 1960[2]. Le lettere del primo, in particolare, forniscono informazioni preziose non solo di natura biografica (i vari spostamenti, gli impegni editoriali e organizzativi, le condizioni di salute ed economiche), ma anche di carattere poetico e permettono altresì di conoscere l’immediata reazione di Comi ai giudizi espressi dal critico nelle sue recensioni. Questo rapporto infatti è stato sempre basato sull’estrema franchezza e libertà di giudizi da parte di entrambi. Da un lato, Bocelli non si dimostra mai compiacente nei suoi articoli e manifesta delle riserve, circoscritte peraltro alla prima fase della poesia comiana, che mantiene coerentemente fino alla fine, anche quando è invitato dal poeta a scrivere la prefazione a una sua antologia. Comi, dall’altro, pur esprimendo ripetutamente la sua gratitudine per l’attenzione riservatagli, risponde sempre in maniera franca e aperta alle obiezioni del critico, manifestando garbatamente, a sua volta, il proprio dissenso.
L’incontro tra i due avviene nel 1931. Proprio quell’anno Bocelli era stato chiamato da Antonio Baldini a curare la rubrica letteraria della “Nuova Antologia”, a cui collaborerà fino al 1943[3]. Dal canto suo Comi, nel 1931, aveva pubblicato la raccolta Nel grembo dei mattini, che si colloca nel secondo tempo della sua poesia, in quanto “gli anni dal 1929 al 1936 […] sono caratterizzati da una costante, rappresentata dalla persistenza della tematica panica e cosmica e dalla contemporanea crescita di un’ansia religiosa sempre più esatta e consapevole”[4]. Questa raccolta dunque venne presa in esame da Bocelli in una recensione nella quale riusciva a individuare acutamente le caratteristiche della poesia di Comi, fissando già da ora alcune linee-guida della sua interpretazione che manterrà anche in seguito. In primo luogo, dunque, metteva in rilievo l’ispirazione panico-sensuale del poeta: “Nel Comi – scriveva – è ardentissimo l’anelito alla comunione col tutto, alla liberazione cosmica: ma – precisava – a una comunione e liberazione in cui sia tuttavia presente la coscienza di sé e di codesta comunione e liberazione; e con la coscienza, il piacere dell’una e dell’altra”[5]. Da qui derivavano le differenze con la poesia di Onofri a cui quella di Comi era fin da allora frequentemente accostata[6]. Per il critico romano, infatti, mentre il primo partecipa attivamente alla “molteplice vita del mondo”, all’ “eterno travaglio della creazione”, il secondo è un “semplice spettatore”[7]. Così pure mentre in Onofri è sempre presente la realtà terrestre, nell’altro l’astrazione da questa è costante. Tutto ciò porta a una “scarsezza e staticità di motivi spirituali talvolta esasperante” a “una cordialità chiusa e quasi scontrosa; donde l’uso continuo della parola in quanto suono e non in quanto verbo”[8]. Alla fine però Bocelli riconosceva che in quest’ultima raccolta si poteva notare “uno schiarimento interiore, una semplificazione e liberazione verso la poesia vera”, essendo “assai più ricca di momenti poetici che non le due precedenti”[9]. In particolare osservava che qui, più che la comunione con l’universo era celebrata la “luce”, “sintesi d’ogni armonia, e il sentirsi come essa, con essa, diffusi nel mondo”[10].