di Antonio Errico
Fino a un certo punto abbiamo saputo che cosa raccontare del Salento; abbiamo saputo come raccontarlo. Almeno questa era l’impressione, o l’ambizione, o l’illusione: sapere cosa raccontare di questa terra; sapere come raccontarlo. Almeno fino all’inizio di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio, chi ha voluto raccontare il Salento ha avuto la suggestione del Mito, i riflessi e i rigurgiti della Storia, il tessuto dell’immaginario collettivo, le tristezze e gli stupori di quello individuale, ragioni da proporre, passioni da contagiare. Ha avuto riferimenti culturali e modelli di scrittura, riti da interpretare, identità da confrontare, proiezioni di lunghe ombre provenienti dal passato, condizioni di esistere e messinscena di quelle condizioni, nuclei di senso, figure di personaggi, profili di paesaggi, costruzioni di forme.
Su questo ha potuto contare Luigi Corvaglia quando ha scritto Finibusterre, per esempio; su questo hanno potuto fare affidamento Fernando Manno per Secoli fra gli ulivi, Maria Corti per L’ora di tutti, Rina Durante per La malapianta, Giovanni Bernardini (in particolare per Provincia difficile), Antonio Verri, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Girolamo Comi, Vittore Fiore, Salvatore Toma.
Avevano territori in cui muoversi, orizzonti verso cui procedere, pozzi di memoria dai quali tirare l’acqua di significati, di simboli, metafore.