A lui parve che le parole della donna non fossero reali; gli parve che la voce venisse dal mare: “ E’ il mare, è il mare che inganna con le sue innumerevoli voci”, pensò, “ o forse è il vento che tesse sempre nuove armonie. Ecco ora mi sembra di udire canti volare dagli alberi di una nave, è la mia nave e tutti mi aspettano per un ultimo grido”.
”Vide che nella grotta avevano deposto ai suoi piedi un tesoro che scintillava oscurando la luce del giorno in declino: topazi, diamanti, smeraldi, alberi di navi, catene d’oro; perle, scudi d’argento, monete antiche. C’era un grande boccale d’oro e un monile tempestato di pietre preziose a forma di drago.
“Ecco il tesoro di Rovesciaboccale”
“Soffia nella bocca del drago e rinasceranno i canti delle sirene”
“Bevi nel grande boccale d’oro e torneranno i papaveri selvaggi a versare il loro sangue”
“E dal sangue rinasceranno i bambini rapiti dal mare”
“Bevi, bevi, bevi!”
“Soffia, soffia, soffia!”
Nell’aria arpeggiavano strumenti musicali nascosti tra le rocce, corde invisibili, sussurri dolcissimi e strazianti. E altre voci e voci s’accesero come un fuoco lontano, e venivano dal mare.
Poi, bruscamente, s’interruppe la musica, si spensero i canti e la luce del mattino si disfece in un livido crepuscolo. Per un istante tutto tacque. Anche il vento era fuggito ed egli non udiva più il canto degli alberi della nave. Si formò un silenzio cupo, di stagno, denso di attese. Rapidamente venne la notte che si vestì del volo greve delle nottole. Centinaia , migliaia di nottole erano nella grotta , in una luce bluastra, e avevano volti di bambini; battevano le ali e squittivano strisciando a testa in giù per un dirupo scosceso che dava adito ad una grotta più grande. Spaventato, egli si ritrasse e urlò:
“Non sono il re pescatore, non sono il re pescatore!”
Ma nessuno sembrava ascoltarlo.
“Guardali!, guarda i tuoi figli prigionieri, re pescatore”, gli disse una donna indicandogli i pipistrelli che continuavano a squittire sempre più vicino a lui. La donna gli porse il boccale d’oro.
“Bevi e tutti i bambini saranno liberati.”
Bevi e resterai con noi per sempre”
“Bevi, bevi!!”
“Sta ai tuoi piedi il più grande tesoro del mare, il tesoro di Rovesciaboccale. Prendilo, è tuo”, gli disse il mercante cieco, con un filo di bava verde.
“Tutto ti doniamo, anche la luce che scava le rocce”.
“Soffia nel drago d’oro , bevi la coppa e sarai immortale!”
“Bevi, bevi, hai sete, hai molta sete”
“Bevi, bevi, re pescatore!”
I capelli della donna delle rocce ora guizzavano nell’aria come meduse azzurre, l’uomo dalle tre aste e il mercante cieco proiettavano le loro ombre gigantesche sulle pareti della grotta.
“Bevi, bevi…Hai sete, molta sete”
“Bevi, bevi, re pescatore!”
“Ecco il tesoro di Rovesciaboccale”
“Bevi, bevi, bevi, re pescatore”.
Fu allora che riuscì a fuggire lungo un sentiero misterioso, guidato dal vento che era appena tornato. E in quel sentiero nacquero alberi profumati. La roccia pian piano si mutò in sabbia e i picchi aridi divennero cordoni di dune. Continuò a correre ostinatamente, schivando misteriose mani di foglie, finché ebbe respiro. Uscito dal sentiero si trovò davanti le rovine di un tempio.
Capitolo 12°
La fanciulla dei Sàmari
Nel tempio in rovina c’erano ancora barbagli di luce e nel sole morente cantava una donna: “E tu prendimi, portami con te/come un incendio nelle sue abitudini”. Poi entrò un frate-buffone, la cinse alla vita e la fece danzare con lui.
Anche l’uomo dalla memoria ferita andò incontro al sole, ma il sole si spense dietro un sentiero di pini. Dagli alberi s’alzò un lamento, forse il grido di un uccello misterioso. Ed egli inseguì quel grido. Nella sua mente confusa giocavano echi spezzati di spade e danze di mare. C’era un’alba piena di voli di gabbiani, una muraglia di rocce e uomini con le sciabole e pugnali, una distesa di luce, di fuochi, e di gridi.
Non sapeva mettere ordine ai suoi pensieri e si smarrì più volte vagando sotto un cielo fasciato di nuvole con la coda d’oro. C’era una musica in quelle nuvole e tutti gli uccelli nascosti negli alberi zittirono per ascoltarla. Anche lui stette in silenzio ed ascoltò quel suono dolcissimo che spingeva le cose fino alla fessura di un altro mondo d’ombra e di mistero. Non era niente, forse un respiro, una carezza, un’orma, una piega, una foglia, un’attesa, un segno, ma era bellissimo, finché s’aprì una nuova alba, più vivida e azzurra che spingeva cespugli di margherite nei campi gialli e bianchi del grano. Da quell’alba vennero pescatori con i visi pieni di rughe e di sale in cui giocava la luce del sole. Essi lo portarono nel loro villaggio, dietro le dune dei Sàmari, dov’erano donne in preghiera.
“Qui la morte ha disteso un sudario”
“La morte ha lasciato una scia di dolore nel mare”
“Sant’Agata dalle mammelle strappate, allontana la morte”
“Santa Cristina vestita di mare, ferma la morte”
“Piccola vergine dei Samari , addormenta la morte”
“Va via, va via, Signora morte”
“Non ci sono bambini dai visi azzurri”
“Non ci sono bambini dai capelli gialli”
“Hai già preso tutti i bambini dell’Isola”
“Noi siamo piccole donne sterili”
“Va via, va via, Signora morte”.
Ma l’odore della morte veniva dal mare e si spargeva nell’aria salendo fino all’invisibile luna. Le donne sapevano che la luna si sarebbe disvelata con il calar delle ombre e sarebbe stata grondante di sangue. Perciò continuavano a pregare e a vegliare, nascondendo i loro bambini nelle capanne di miele e di fango, dove giocavano ignari con le ombre, mentre i pescatori erano seduti e muti davanti alle soglie; guardavano la risacca del mare. E disegnavano sulla sabbia figure votive. Poi s’alzò una brezza addormentata dalle tamerici dietro le dune, e apparve di nuovo il buffone con il saio da frate. Allora i pescatori e le loro donne cessarono i riti e le preghiere, si alzarono e gli andarono incontro con contrizione. Il frate-buffone era magrissimo e sul suo viso scarno ed emaciato brillava un pallore intenso:
“Amore, amore, amore, amore”, disse l’uomo allargando le braccia e stendendo le mani ossute.
“Amore, amore, amore, amore”, ripeterono insieme le donne e i pescatori, come un’eco.
“Pace, pace, pace, pace”, disse il frate-buffone.
“Pace, pace, pace, pace”, ripeterono i pescatori e le donne.
L’uomo senza memoria
intanto era stato distratto dall’improvviso ardere di un roveto sulle dune gialle dei Samari. E da quel
nido segreto di fuochi e luci , di strazi e desideri egli vide venire incontro
a lui una fanciulla di rara bellezza, armonia
e levità . Aveva una corona sul capo, che dava splendore al dolcissimo viso, e
un calice d’oro nella mano destra. Ecco che con passo leggero, quasi alato, la fanciulla raggiunse l’uomo dalla memoria
ferita.
Capitolo 13°
Il Vescovo
Sui gradini della cattedrale di Sant’Agata s’aprì un altro mattino con il vento triste che galoppava uccidendo il silenzio. Fra brividi di coltelli e gemiti di tenerezze, le madri di Gallipoli pregavano Dio e i Santi gridando: “Pietà, pietà, pietà”, finché le labbra e il cuore non furono stanchi.
Passarono le quattro sorelle con un’ampollina d’olio e i seni di cristallo. Avevano corone di rosmarino sulle teste leggere, entrarono nella chiesa e si abbracciarono tutte e quattro ai piedi della croce. Poi aspersero l’olio nell’aria, bruciarono le corone di rosmarino e invocarono Dio, i santi e i loro morti, mentre il sacrestano nano le inseguiva per scacciarle: è peccato, è peccato, -diceva loro,- andate via.
Ma ecco, in una luce fredda, scortato dai soldati, che fa il suo ingresso nella cattedrale, il vescovo di Gallipoli. Le donne si scagliarono contro i soldati del castello gridando:
“Traditori, traditori, traditori”.
Ma i soldati le ricacciarono indietro con le lance e le spade. Il vescovo, coi paramenti d’oro, passò fra due fila di donne silenziose. Con le dita bianche e inanellate il vescovo benedice i bambini e le donne: “Dio scuoterà il cielo e farà cadere una pioggia di fuoco sulle navi nemiche”.
Ma le donne i vecchi e i bambini non hanno più fede, perché hanno fame e sete, perché sono stanchi, hanno paura e perché si muore.
“Dio è con noi, Dio è amore”, dice il Vescovo, benedicendo.
Ma le donne i vecchi e i bambini dicono che non è vero. Amore è nelle loro carni lacerate, nella loro disperazione, nella fame, nel mare triste, negli uomini sulle torri e nei fortini, nei cannoni che squarciano l’aria.
Il vescovo ora si fa largo nella moltitudine, protetto dai soldati si defila dalle schiere di persone che fanno ressa, passa con piedi alati, elevato di un metro dal tappeto di porpora e d’oro, il vescovo ora cammina nell’aria, è sospeso nel cielo della cattedrale.
“C’è scontentezza nel cielo, Eccellenza”, dicono le donne.
“Gli angeli sono fuggiti, Eccellenza.
“Gli angeli hanno le ali inchiodate sui muri”
“Gli angeli sono si nascondono nelle cantine”
“Gli angeli sono stati sconfitti dal demonio, Eccellenza”
“Figlioli miei, i quattro angeli di Gallipoli, che versano il vento, torneranno presto fra noi per spaventare il nemico. Fuggiranno i veneziani al solo vederli con le spade d’argento. E il vento sveglierà i guerrieri che dormono nel mare. E i guerrieri alzeranno pareti di obelischi sull’acque”
“Abbiate fede, torneranno gli angeli nostri contro le navi”
Ma le donne dicono che gli angeli sono muti, aridi, non sanno più piangere, non gemono, ignorano il mistero della partoriente, ignorano la passione bruciante di un bacio, ignorano il dolore del sangue, ignora la miseria, il colera e la pesta.
Il vescovo viene rapidamente inghiottito dall’anima della cattedrale e scompare nell’incenso. Le madri tornano a lamentarsi sui gradini della chiesa con voci più fievoli, i bambini piangono più debolmente e si addormentano, i vecchi si abbandonano quietamente in attesa della morte.
Intanto dal mare e dalla terra i veneziani hanno ripreso a sparare sollevando fantasmi di nebbia e di fumo, mentre sui bastioni gli uomini di Gallipoli non hanno più che sassi e grida da opporre agli invasori. E il vento triste galoppa, galoppa, galoppa, uccidendo il silenzio.
Capitolo 14
La mano insanguinata
Si fece l’alba anche sulle navi veneziane, il mare era agitato dal libeccio: era una danza di muri che agitava il mare e faceva dondolare le barche della Repubblica.
Il comandante Domenico Malipiero vide a levante una luce diversa accendersi sull’isola. Era la luce di un occhio vivo e azzurro che fissava la flotta spiandone i movimenti. Doveva uccidere quella luce con il fuoco dei cannoni: era quella luce che alimentava la fede degli uomini di Gallipoli. Il castello si era venduto, i soldati della città erano pochi e senza munizioni. Nulla poteva giustificare l’ostinata resistenza dell’Isola al Leone veneziano se non quella luce diabolica che saldava le pietre e gli animi in un’unica volontà, ricuciva le ferite e le speranze della gente, ricostruiva i bastioni e le torri spezzate. Sì, era quell’occhio misterioso di luce azzurra che bisognava accecare. I suoi uomini avrebbero raddoppiato gli sforzi fino a sferzare con le spade brandite quella luce azzurra di un faro invisibile; avrebbero sgretolato le pietre, una ad una, piuttosto che abbandonare l’assedio. All’Ammiraglio aveva detto: “Prenderemo Gallipoli senza cannoni, senza versare una goccia di sangue: sarà sufficiente far sventolare i nostri vessilli del Leone di Venezia”.
Ora, mentre si avviava negli alloggi di Giacomo Marcello, avvertiva il peso di quelle parole azzardate. Intanto Seguntino pregava sommessamente:
“Stella Maris piena di grazia e d’amore, tutto il mare e il cielo proclamano la tua divina potenza”.
Vide Malipiero in attesa:
“ Non ora, non ora”, disse il segretario.
Poi riprese:
“Benedetto il tuo nome pungente e il tuo pallido albore”
Malipiero rimase immobile deciso ad aspettare.
“Non ora, non ora”, ripetè Seguntino e riprese a pregare.
“Benedetto sia il fiore del tuo seno e il tuo cuore puro”
Malipiero si fece impaziente. Allora Seguntino, interrompendo la preghiera, disse:
“ L’Ammiraglio non è in grado di ricevere”
“Perché?” – disse Malipiero.
“E’ in un grigio crepuscolo d’agonia. Ha gli occhi fissi nel vuoto. Non parla, non ascolta. E’ come un calice vuoto.”
“E’ morto?”
Malipiero s’avvio d’impeto verso la cabina dell’ammiraglio nonostante le proteste del segretario, aprì la porta e vide il grande lenzuolo bianco che avvolgeva il corpo di Marcello come un sudario. Ma da un lembo del lino bianchissimo scorse una mano insanguinata.
Ne rimase sconvolto:
Capitolo 15°
L’isola della luce
L’uomo dalla memoria ferita era sulla spiaggia calda di mezzogiorno ed aveva in mano una scheggia di luce, un frammento dello sguardo della fanciulla dall’aspetto regale: un incendio di smeraldi che faceva impallidire il cielo. Il viso di lei sembrava che fosse nell’uscio del sole quando albeggia e Eos conduce i suoi piedi luminosi nella porta della terra, mentre Marcello sentiva scorrere dentro di sé il sangue impetuoso come un oceano.
“Questa è la spiaggia dei Samari”, disse lei.
“Qui trovano riparo i pescatori inseguiti dal libeccio sanguinario”
Ma intanto si erano dissolti sia i pescatori che il frate-buffone, ed erano scomparse le donne e le capanne di fango e miele.
“Questa spiaggia è sacra perché da sempre l’uomo vi celebra il rito del mistero della vita e riscopre la meraviglia di sentirsi vivo.”
Mentre la Vergine dei Samari parlava egli si sentiva l’anima cantare, e qualcosa sembrava che tornasse dal suo passato. Non era più un uomo disabitato, un’ombra vuota e inutile. La fanciulla lo guardava con un certo sorriso che brillava con la brezza del mattino: odorava di sole, di onde di mare, di cielo e di brezza soave di eternità. Lei colse il suo sguardo di marinaio avvezzo ai lunghi digiuni d’amore:
“Il mio corpo è pane caldo , per chi ha fame, ma tu sei come una brezza fredda d’argento”, disse.
Egli continuava a guardarla con acceso desiderio. Allora lei gli disse:
“Se prendi il mio corpo un esercito verrà dal mare e squadriglie di gabbiani ti assaliranno dall’aria.”
Poi la fanciulla si alzò e corse verso l’interno dei Samari, dov’erano pini, abeti, larici e fiori bianchi e un labirinto di siepi. Egli la seguì quasi senza volere e in un breve lasso di tempo si trovarono all’interno di un giardino di rose.
“Questo è il mio giardino segreto”, disse la Vergine dei Samari.
“Qui sono raccolte tutte le anime delle creature innocenti”
Allora egli vide le grandi rose bianche dai petali un po’ sfioriti, mentre nel cielo passavano uno stuolo di fanciulle bianche senz’ali e, insieme a loro, molto passeri, gazze, merli, corvi che volando fecero cadere i petali morti delle rose che, d’improvviso, si mutarono in bambini. Sorpresi, i fanciulli fuggirono via ridendo e agitando le piccole mani. Allora egli vide che sulle loro tenere mani vibravano fili lucenti di rosso sangue:
“Perché quel sangue?”, chiese?
“Anche la rosa più bianca e pura conosce il dolore”, disse lei, e passò oltre la raggera delle rose. Sotto il suo sguardo le fronde degli alberi erano scintillanti e le gazze volavano basse con anelli d’oro nel becco, formando tanti cerchi di luce. Attraversarono i canneti gialli e verdi, e le paludi dove le rane tessevano un canto festoso, finché giunsero ai piedi di una grande duna, che sembrava una collina. Dall’alto del promontorio di sabbia egli vide una città con le sue torri, i bastioni, e il castello imbandierato. Voci cantavano in un’estasi di stendardi che invadeva le stanze del castello e arrivava fino ai bastioni turriti, mentre i campanili delle dodici chiese sembrava s’allungassero quasi ad invadere la gloria del cielo ed abbattere gli angeli nascosti dietro l’orizzonte di quella seta azzurrissima che non aveva fine.
L’uomo dalla memoria ferita guardava affascinato e ammutolito di stupore, quando nel cielo apparvero cavalli ammassati in un fulgore di rame. E sotto il cielo vide le navi e gli parve di udire il tuono dei cannoni, il clamore delle armi, le voci e le grida dei soldati. Scivolavano dentro di sé echi di memoria, colori, oggetti, odori, e dondolavano voci:
“Cavalli, cannoni, navi, spade, voci. Qualcosa si risveglia in me, qualcosa mi rode nel petto”, disse.
“Non ascoltare il riso della morte. Là scorre precipitoso il tuo sangue verso la morte. Non ascoltare quelle voci, non avvicinarti a quelle mura”, gli diceva la vergine dei Samari.
Ma egli già non udiva più. Qualcosa di sottile e misterioso lo costringeva a rimanere immobile con lo sguardo fisso sull’isola lontana in cui gli scogli e i gabbiani si tramutavano in echi luminosi:
“Qualcosa si risveglia in me, qualcosa mi ride dentro”
“Rimani qui dove la vita è lieve e la natura un miracolo costante che si rinnova ad ogni levar del giorno”
La fanciulla gridava di fronte alle torri e le torri s’alzavano in un cielo di fuoco.
“Rimani qui dove la morte non esiste”.
Ella gridava di fronte alle navi e le navi si laceravano contro il vento.
“Là dove tutto sembra potenza e fasto, gloria e ricchezza, l’anima è arida e nuda”
Ella gridava di fronte ai campanili e i campanili si torcevano nella musica delle nuvole.
“Rimani qui, nel sogno dei Samari, dove l’anima è libera e canta”.
Ella gridava, ma la scintilla di sole che ora feriva il mare e lo insanguinava aveva rapito l’anima dell’uomo senza memoria. Egli non l’ascoltava più. Ai margini del sogno che si spezzava, che si scioglieva, sentiva ch’era rinato un desiderio struggente di potere che danzava nei suoi occhi infuocati, un desiderio più forte d’ogni altro che gli stava soffocando la gola in una morsa di angosciosa ebbrezza di autoesaltazione. Era quella scintilla di sole ora che lo lusingava e un’altra voce che gli sussurrava: “Guarda, l’isola è vicina. Basta che allunghi una mano ed è tua. Prendila!”
“Guarda la sua straordinaria bellezza!”
“E’ l’isola di Venere”
“E’ l’isola della luce!”
Ma lui non vedeva altro che l’esplosione della luce che si diramava per ogni dove.
(continua)