Su Il mal de’ fiori di Carmelo Bene

Nel complesso, comunque, si trattava ancora di scritti tutto sommato tradizionali nello stile e nel linguaggio e quindi abbastanza accessibili ai lettori. Il “poema” ‘l mal dé fiori invece esce fuori completamente dagli schemi consueti della poesia contemporanea, anche di quella più sperimentale e d’avanguardia, risultando di impervia, quasi impossibile lettura, e costituisce, in questo campo un momento di rottura analogo a quello rappresentato dagli spettacoli teatrali e dai film di Bene.

Composta, anzi “abortita”, nell’ultimo anno, “nel castellaccio d’Otranto, durante una chemioterapia, tra dolori atroci”, come ha chiarito lo stesso autore durante la cerimonia di consegna del premio “Poeta della musica” assegnatogli a Milano, quest’”opera-testamento” intende dire l’indicibile attraverso la scrittura. E lo dice attraverso una strenua, costante, implacabile operazione compiuta sul linguaggio.

L’autore infatti sa bene che la lingua usata quotidianamente, anche quella della poesia, è inadeguata ad esprimere l’ineffabile, a raggiungere un senso ‘altro’, non appartenendo l’essenziale, secondo Wittgenstein, “all’orizzonte della dicibilità”. “Straniero nella propria lingua”, come è stato definito da Deleuze, Bene deve inventarsene perciò un’altra, più autentica, più sua, alla ricerca della “Parola prima delle parole”, per usare un’espressione di Artaud. Da qui deriva la forzatura, lo stravolgimento del linguaggio, lo scardinamento delle strutture foniche, semantiche, sintattiche della lingua che si attua nel libro e che giunge a un’oltranza espressionistica che forse non ha pari nel nostro secolo.

Essa si manifesta innanzitutto con la straordinaria varietà delle lingue usate: dall’italiano al latino, dal provenzale al francese antico, dallo spagnolo all’inglese, con citazioni anche dal greco classico. E poi col ricorso costante ai dialetti italiani: dal lombardo al siciliano al romanesco. Non manca nemmeno una lunga composizione, Ahi! Nu parlamu d’osce marammie!, in un dialetto salentino ‘straniato’, reinventato quasi da Bene, di intensa suggestione. Ma alla varietà delle lingue bisogna aggiungere ancora la diversità dei registri stilistici, l’uso delle figure retoriche, la padronanza della prosodia e della metrica, il gioco delle citazioni, delle contaminazioni e dei riferimenti intertestuali.

L’autore opera a volte sulla singola parola fino a farla deflagrare. Ora la dis-articola nei vari fonemi di cui è composta, ora la riaggrega fondendola con altri termini ad essa prossimi. A volte ricorre anche a una insolita disposizione grafica delle parole, secondo un uso tipico delle avanguardie primonovecentesche.

Solo in questo modo è possibile, secondo Bene, rianimare quel “morto orale” che è lo scritto. Insomma, il posto della phoné, che in teatro è lo strumento principale del suo lavoro, qui è preso dalla decostruzione della parola, da questa radicale operazione linguistica. Per gustare il “poema”, perciò, bisogna prima di abbandonarsi alla musicalità, al ritmo, ai puri suoni, che hanno la prevalenza sui significati, sui concetti.

In questa materia magmatica, continuamente debordante, si percepiscono però di tanto in tanto dei flashes dei bagliori improvvisi, che rimandano ai temi sviluppati dall’autore: la malattia, la morte, il rapporto corpo-pensiero, l’eros, la bambina come donna che “non è”. E soprattutto il tema, così caro a Bene, delle “cose che non ebbero mai un cominciamento”: “Tu che non sei che non sarai mai stata / il mal de’ fiori presso allo sfiorir / dolora in me nel vano ch’è l’attesa / del non mai più tornare”. Anche qui, insomma, qualcosa che è fuori dall’orizzonte della dicibilità e che rinvia a un ‘oltre’, di cui appunto si può avere solo un’irredimibile nostalgia.

[“Quotidiano di Lecce”, 15 luglio 2000, poi in A.L. Giannone, Le scritture del testo, Lecce, Milella, 2004]

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