L’isola e il leone (seconda puntata)

“E’ gente abituata a combattere ogni giorno da sempre con le insidie del mare. Nessuno di loro si alza al mattino certo di far ritorno alla propria casa. Ogni loro pensiero è di lotta e di preghiera”, continuò quella voce di donna che era alle sue spalle.

Voltandosi, egli vide una luce che feriva il suo sguardo, una luce di donna vestita d’azzurro che aveva in braccio un bambino dalla parte del cuore e nella mano libera una pietra nera. La luce d’improvviso balenò sulla pietra come una lama scintillante e ferì gli occhi di Giacomo Marcello.

“Chi sei?”

“ Io sono la Madonna lanciatrice e ti porto un messaggio: allontana le tue navi da questo mare, non tornare sotto le mura di Gallipoli… Non macchiare questo cielo, non spezzare questo nido di luce, altrimenti scatenerai la vendetta della natura, che ti incalzerà fino alla morte. E ricorda: nessuna donna piangerà senza combattere. Tutte avranno un figlio sul lato del cuore e con la mano destra lanceranno pietre e disperazione ”.

Egli rimase a lungo immobile, con gli occhi nascosti nel nulla, e quando li riaprì la donna non c’era più. Era solo sul cassero di poppa della nave ammiraglia, che risaliva l’infaticabile mare costeggiando il promontorio di rocce. Era incredulo, atterrito, freddo come la morte:

“Alvise!”, chiamò a voce alta.

“Comandi!”, s’affacciò subito il segretario.

“Vado a dormire”.

“Sì, signore!”

Capitolo 7°

Il sogno dell’Ammiraglio

Marcello si risvegliò in un’alba sconosciuta, con la nave che rollava paurosamente, assalita e scossa dalle onde, che ardevano come aguzze croci azzurre. Egli gridava imperiosamente al timoniere e ai suoi ufficiali, ma nessuno rispondeva. Erano come statue di pietra, immobili e cieche. La nave, senza governo, finì sugli scogli emergenti dall’acqua e s’incagliò. L’urto lo fece sbalzare in mare, si trovò davanti ai muri dritti delle spaventose onde, precipitando da altezze sconosciute.  Giunse ad una riva misteriosa, ai piedi di una landa desolata irta  di rocce. Da lontano vide le chiglie dorate delle navi della sua flotta muovere sicure nel mare. Galeoni volanti, con la bandiera del leone attraversavano i piedi dello scirocco e le grandi onde come tranquilli gabbiani. Egli non si chiese: perché nessuno si ferma, perché nessuno vede la mia nave prigioniera sugli scogli?

Aveva un cuore nuovo e una mente appena creata. Non ricordava nulla, più nulla e tutto era per lui stupore: “Com’è bello il mare pieno di vele e di bandiere!, ”pensò. “Sono tornato al punto di partenza. Ho vinto?, ho perso?”

I canti dei marinai galleggiavano sull’acqua fino alla sua riva immobile, ed erano forse canti di vittoria. Un’ombra di fanciulla scalza attraversava l’orizzonte, e il  cielo e il mare si toccavano, si carezzavano e ogni carezza durava un secolo.

Quando le navi uscirono completamente dal suo orizzonte, s’incamminò nel deserto di rocce dove incontrò due uomini. Uno aveva tre aste d’oro, l’altro era un mercante cieco ad un occhio. I due avevano un’anima leggera, fatta di sole e vento, e cantavano nello spazio animato dove il presente è perpetuo:

“ Viva la terra del Pizzo, e viva Marien”

“Viva Rovesciaboccale che fuggì con le monete d’oro e una leggenda da raccontare”

“C’è un grande tesoro, c’è un grande tesoro tra i denti delle rocce, ma nessuno lo sa, nessuno lo sa”

“Viva la terra del Pizzo e viva Marien, la regina delle rocce!”

“Viva Rovesciaboccale e il suo vettovagliatore pazzo!”

“C’è un grande tesoro, c’è un grande tesoro tra le rocce”.

“Ristai con noi, nella rotta della notte infinita!”

Capitolo 8° 

La porta di terra

Su Gallipoli  sembrava che il cielo si fosse aperto in tutta la sua larghezza per lasciar piovere fuoco e polvere. Era ormai un giorno intero che i veneziani bombardavano sia da terra che da mare il castello e i bastioni. Già sul sangue grigio delle mura della città s’erano aperti varchi e la gente, perduto il delirio iniziale, ora gemeva e si lamentava.

Donne in schiera invocavano Sant’Agata e Santa Vennardia e pregavano sui gradini della cattedrale. Altre chiedevano invano un po’ di cibo per i bambini che morivano di fame. Mamme disperate nutrivano i figli già grandi con le loro mammelle vizze. Anche gli uomini si lamentavano di essere pochi e con scarse o nulle munizioni per far fronte ai ripetuti assalti della Repubblica Veneziana. Intanto il Castello era sordo e muto agli attacchi nemici e si parlava di tradimento del castellano.

Adesso fa notte – fa preghiera. Ma non chiude le serrature del terrore. E’ un continuo rimbombo che s’ode fra qui e l’orlo del cominciamento del Salento, fino alle spine dorsali delle serre di Nardò, Galatone, Sannicola, Tuglie, Parabita che si distendono come gregge di pecore in attesa del macello.

I veneziani avevano bloccato ogni via di accesso e rinforzi sperati di Cavallino e Lecce erano stati rapidamente messi in fuga e dissolti dalle batterie degli stradiotti di Corfù.

La notte si fece piena di voci tempestate : di rombi, di grida , di lamenti e di preghiere. Qualche spirito più debole cominciava a cedere, ma i più tenevano, rinforzavano i propositi di strenua difesa. Erano soltanto duecento gli uomini in grado di combattere, ma avevano bussole e uragani nei loro cuori di marinai.  .

“Mai, mai, ci daremo ai veneziani, a costo di farci scannare tutti”, disse Sermagistri.

“Ma i bambini, le donne… Che ne sarà di loro? I veneziani si vendicheranno. L’anno promesso”

“Meglio morire tutti che vivere con disonore”, disse Sermagistri.

“Meglio sarebbe vivere tutti e con onore”, disse il Mercante genovese Davide Stella e propose di fare una sortita nottetempo per una richiesta di aiuto al principe di Taranto. Ma nessuno era d’accordo.

“Meglio in pasto ai leoni che agli avvoltoi”, disse Sermagistri.

Intanto il pianto dei bambini, per la fame, saliva al cielo, fino alle stelle e il mare alzava fiocine contro la luna. Le mamme con voci lamentose e stanche dicevano ai piccoli:

“Dove hai la bua, dove hai la bua”.

Gli uomini ruggivano impotenti scagliando frecce nell’aria notturna mentre il riflesso della luna di sangue strisciava lungo l’istmo di rocce grigie dov’era la porta di terra. 

Capitolo 9°

Marien, la donna delle rocce

“Sei solo, – gli diceva una voce roca di donna – , solo sul filo del mondo, ormai inchiodato sul castello della tua nave come statua di gesso. Portavi dentro una città, ma l’hai persa senza combattere. La tua battaglia è finita.  Dopo la tua caduta, la città sarà rasa al suolo ed era la migliore delle città, la più bella delle città. E tu non potrai fare nulla per averla, addormentato per sempre tra falsi angeli,  torbidi e collerici”.

I tre uomini s’incamminarono sul versante di scirocco, tra le dune, presso una spiaggia in cui il sole giocava con il mare e trasformava tutte le cose in oro purissimo.

“Qui è il cuore della luce”, disse una colomba bianca volando sull’uomo senza memoria. Ed egli vide un alone di silenzio che si formava in lontananza. Dal silenzio nacque una donna vestita di luce  che aveva con sé una bambina . Alle sue spalle si stagliava una piccola città irreale.

“Ecco Marien, che stravolge le rotte delle chiglie dorate

“Ecco Marien, che con i suoi occhi di fuoco azzurro  incendia i giardini di rose e i voli di uccelli

“Ecco Marien, la donna delle rocce che mescola ricordi e desideri nel catino del sangue del sole che tramonta.

L’uomo senza memoria si fece statua di stupore e di meraviglia: quella donna fanciulla  trasportava con se una ferita di bellezza travolgente, infaticabile e cieca. Era impossibile sostenere il suo sguardo. Sentiva il cuore battergli all’impazzata e poi ecco che si placava e dentro c’era un canto , poi un suono stridente di violino di cristallo, e nella testa aghi invisibili, o formiche insonni lo tormentavano.

La donna delle rocce distese la sua lunga chioma guizzante d’azzurro e di fuoco. Aveva l’intenso profumo del mare, gli occhi ardenti e profondissimi delle notti sul mare.

“Sei finalmente tornato, re-pescatore”, disse la donna inginocchiandosi ai piedi dell’uomo senza memoria.

“Nel giardino di Marien,  nessuno è più bravo del re-pescatore,  neppure il pazzo vettovagliatore”

“Nel giardino di Marien,   nessuno è più sognatore del re-pescatore, neppure quel temerario di Simon il timoniere.

Nel giardino di Marien, nessuno è più marinaio del re-pescatore,  neppure quel diavolo di Rovesciaboccale”.

Ora danzavano e cantavano l’uomo con le tre aste, il mercante cieco e un corteo di donne vestite di fiori che venivano dalle onde del mare. L’uomo senza memoria si trovava al centro delle danze e i canti. Il suo cuore si smarriva e sopra di lui il cielo si fece improvvisamente curvo.

“Devo tornare alla mia nave”, disse agitandosi nel sonno, “devo tornare alla mia nave. Io sono l’Ammiraglio Marcello!”

Capitolo 10

Domenico Malipiero

A bordo della nave Ammiraglia, il Comandante Malipiero si agitava e balzava sui ponti con l’agilità e l’energia di un giovane soldato, incitando i suoi uomini per l’assedio decisivo. Le perdite erano state superiori ad ogni previsione, oltre duecento marinai veneziani avevano trovato la morte sotto i bastioni. Anche il mare si tinse del sangue dei rematori, ora che il vento soffiava debolmente raccolto nel vaso roseo del tramonto.

Malipiero urlava: “Vogare, vogare, vogare, vogare”, sospingendo le navi verso le torri che avevano frecce nascoste dietro i merli. Incitava i soldati verso l’agguato della morte:

“ Vogare, vogare, vogare, vogare”, gridava ai rematori.

Nessuno si accorse che era calato il tramonto e nel cielo era già nata la luna crescente. I soldati continuarono ad armeggiare sulle macchine da guerra, figure geometriche che si stagliavano nette nel crepuscolo come freddi artigli di morte. Il comandante incitava i suoi uomini: “Svelti, svelti, vogare, vogare”.

Era necessario camminare sulle onde, sventrare i muri di arenaria con i corpi dei soldati, volare sulle scale, correre per le strade, assaltare i fortini, colpire, colpire, prima che il sole tramontasse!

Ma intanto nel cielo era già sovrana la luna e rischiarava l’elmo metallico dei soldati. La luna era ormai seduta sulla porta di terra ed aveva tante fiocine nel cuore. Allora il comandante vide la luna sanguinante e ordinò alle navi di allontanarsi dalle mura ferite. Malipiero si accorse che i suoi uomini erano stanchi, delusi, sorpresi. Vide i feriti gettati   sui parapetti della nave mentre si allontanavano le fioche luci dell’isola. Provò dolore nel vedere quei corpi abbandonati, quegli animi nella polvere, quelle volontà sgretolate, ma provò anche rabbia per l’orgoglio scalfito, bruciato, ed era più grande del dolore.

“Domani rinasceranno guerrieri più forti e bramosi di vittoria, domani prenderemo la città, domani…”.

“Perché morire a Gallipoli?”, pensavano i soldati.

“Perché morire in quel luogo aspro di rocce grigie dove non sosta alcuna gloria?”

“Domani, domani…”.

“Perché morire a Gallipoli?...”.

Ora s’era liberato il vento dai canneti e trasportava con sé i gemiti e i voli dei gabbiani insonni.  Domenico Malipiero sapeva che quel vento veniva per lui , l’avrebbe racchiuso tutto nella sua mano, per poi liberarlo e spezzare ogni resistenza  dei gallipolini. 

Suonarono le campane.

Dal campanile più alto volò un angelo giallo e gli portò una lettera: “Tu sarai il conquistatore dell’Isola della Luce e tue saranno le più belle fanciulle di Gallipoli  profumate di gerani”.

(continua)

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