di Augusto Benemeglio
Capitolo 6°
La madonna lanciatrice
Mentre le navi da carico, le caracche e parte delle galee guadagnavano la rada di scirocco per trovare un approdo e sbarcare gli stradiotti, le batterie, i carri e i cavalli, l’Ammiraglio Giacomo Marcello pensava che quel contrattempo, quell’assurdo delirio di grecità antica da parte di un popolo di pescatori ignoranti, avrebbe avvantaggiato l’avido e cupo Don Ferrante le cui truppe, comandate dal figlio, il Duca Alfonso di Calabria, avevano sbaragliato quelle pontificie.
“Sono ben presidiati e disposti a battersi. Ci terranno in scacco chissà per quanto tempo”, pensò a voce alta.
“ E il tempo è prezioso”, disse una voce che veniva dall’alto.
Guardò in silenzio il suo segretario seduto alla scrivania, intento ad annotare qualcosa e gli parve come se fosse un fantasma.
“Alvise!”, lo chiamò.
Ma quello non rispose. Allora l’Ammiraglio uscì fuori dal suo alloggio e vide che il cielo era tornato vivo, pieno di macchie rosa. Da lontano osservò la costa piana, a tratti sabbiosa, a tratti rocciosa, che gli veniva incontro come un angelo enigmatico. Ne era affascinato, io porto dentro questa città, non la posso perdere. Essa mi è stata assegnata per dono segreto. Ma dovrò combattere per averla. Nella sua anima altera cantava una voce, si risvegliava un eroe-bambino solo, sul filo del mondo, che scova nidi d’ambra. Quel popolo di pescatori che si desta all’improvviso da un lungo sonno di morte, quella terra abbarbicata e ramificata ai primordi della creazione, così aspra, così selvaggia e bagnata di luce, lo pervadevano facendogli perdere il senso della realtà. Si scosse: “Che idiozia battersi per don Ferrante, un bastardo metà spagnolo e metà ungherese! E contro una flotta di settanta navi! Chissà perché l’avranno fatto?.”
“Essi non hanno nulla da perdere, tranne l’onore”, rispose una voce che era alle sue spalle.
“Nulla da perdere? E la vita? Chi perde la vita perde tutto!”