La lingua cambia continuamente perché racconta l’esistenza

Non nel giro di secoli, di decenni, di anni.  Cambia giorno per giorno. A volte cambia nel giro di istanti. Perché una parola nuova può nascere anche in un solo istante. Perché una parola straniera domanda ospitalità all’improvviso. L’unica cosa che non potrà mai accadere è che una parola all’improvviso scompaia. Questa è una cosa che hanno detto, sempre, tutti i linguisti. Ma meglio di chiunque l’ha detta un poeta. Scrive Thomas S. Eliot in uno dei suoi Quattro quartetti, Burnt Norton:  “Le parole si muovono, la musica si muove/ solo nel tempo; ma ciò che soltanto vive/può soltanto morire”.

Arthur Schopenhauer sosteneva che la vita di una lingua somiglia a quella di una pianta “la quale uscita da un nudo seme, come un rampollo poco appariscente, si sviluppa gradualmente, raggiungendo l’acme, e di lì decade di nuovo invecchiando lentamente”.

Una lingua cambia perché cambiano gli uomini, le donne, i vecchi, i giovani, i bambini,  che la parlano. Perché cambiano le parole con cui esprimono i loro pensieri, i sentimenti, le felicità, le paure, le illusioni, le rabbie, le malinconie, gli stupori. Perché cambiano i libri e i giornali che leggono, i film che vedono, le canzoni che ascoltano, i loro giocattoli, i loro vestiti, gli uomini e le donne che incontrano.

Una lingua cambia anche perché cambiano i luoghi e le persone che abitano i luoghi. Perché cambiano i paesaggi, gli alberi, le ore dell’alba e del tramonto. Cambiano i panorami, può essere montagna o pianura,  ci può essere il mare o un bosco o un fiume. Allora servono le parole per dire il mare, il bosco, il fiume, i colori dell’alba e  del tramonto, la montagna, la pianura.

In una terra mediterranea, per esempio, per dire ghiaccio si usa – probabilmente -una parola soltanto.

Nel Senso di Smilla per la neve”, Peter Hoeg racconta in quanti modi si dice ghiaccio in Groenlandia. Si dice frazil, greace ice, pancake ice; hiku per dire il ghiaccio permanente; hikuaq e puktaaq sono banchi di ghiaccio galleggiante; maniilaq sono zolle di ghiaccio, apuhiniq è neve che il vento ha compresso in barricate; agiuppinig sono cumuli di neve, killaq sono buche di ghiaccio.

Gli uomini creano le parole per nominare le cose con cui hanno relazione, e le cose sono sempre in uno spazio, che può essere il vicolo chiuso o l’oceano sconfinato, la galleria che nega l’orizzonte o il cielo che si guarda da un terrazzo.

Una lingua è sempre in relazione a un’esistenza.

Per chi vive e parla in questi anni di terzo millennio, la lingua di un testo del Cinquecento, per esempio – forse anche dell’Ottocento – è come una lingua straniera sconosciuta. Accostarsi ad essa comporta l’esperienza dell’incomprensione. Quando non si comprende pienamente, forse  riesce difficile (probabilmente impossibile) avvertire un piacere, un’attrazione.

La lingua che è stata deve apparire come quella condizione che ha creato le parole che oggi pronunciamo, con cui riusciamo a parlare di noi e delle cose che sentiamo nostre.

Il presente è una lingua composita, complessa, influenzata da altre lingue, sempre di meno dai dialetti, sempre di più dai media di massa, dai gerghi, da sottocodici specialistici, dai social, dall’informatica.  Linguaggi verbali e non verbali che si incrociano, si sovrappongono, determinano una dimensione semantica dalle molteplici forme, flessibile, facilmente modificabile e facilmente deperibile.

La lingua del presente è – com’è sempre stata ogni lingua,  per origine e per finalità –  lo specchio fedele di una civiltà, di un modo di pensare e dire l’universo, la sfera del reale e quella del fantastico, i bisogni e i sogni di ciascuno.

Siccome molte sono le realtà, molte sono le lingue.

Allora c’è bisogno di possedere molte lingue. Di saper ascoltare e parlare, leggere e scrivere, comprendere e farsi comprendere con  parole che hanno origine diversa, che vengono da lontano. Perché sono di origine diversa e vengono da lontano le vite che ci abitano accanto, che popolano le piazze, le strade, i mercati, le scuole, gli autobus, i vagoni dei treni, i viali delle città.

L’Altro è parte di noi. Comprendere l’Altro significa comprendere una parte di noi.  Comprendersi con l’Altro significa accogliersi, darsi reciproca ospitalità, superare la distanza,  scongiurare  il conflitto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 20 novembre 2022]

Questa voce è stata pubblicata in Linguistica, Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *