Capitolo 2°
La prenderemo come una conchiglia aperta
La luce della calce che ricopriva le case di tufo e le chiese saliva verso l’alto, mentre la luce del cielo si tingeva di rosa e d’azzurro riverberando sulle alte muraglia perimetrali. L’ombra grigia del castello ardeva di bandiere con lo stemma degli Aragonesi, sui merli delle torri i soldati avevano corazze di vetro e lance d’argento. Tutto scintillava sotto l’impeto di fuoco del sole . Solo le labirintiche strade che sfociavano in brevi e anguste corti erano prive della calda gioia del sole e odoravano di salnitro e di miseria, con gli stracci percosse dal vento e le reti ammatassate sui gradini.
Dapprima il bell’Alfonso dal volto cesareo e la capigliatura bionda, con lo sguardo fiero in cui balenavano i sogni e il labbro roseo di un fanciullo malinconico, poi il figlio naturale Ferrante, goffo e tarchiato, con il volto largo e flaccido in cui si sperdevano gli occhi piccoli e pungenti, avevano conosciuto l’orgoglio , la fierezza, la fedeltà di Gallipoli.
Man mano che l’Ammiraglio Marcello s’avvicinava ai bastioni e alle torri imbandierate, le vele delle sue navi diventavano azzurre. Egli pensava che l’isola fosse una conchiglia di musica dove poter far danzare i suoi uomini, una fin troppo facile preda per il possente Leone di Venezia.
Allora Gallipoli era un’isola su cui scorreva e si dipanava l’intricata matassa dei chiaroscuri. Edificata su un promontorio di scogli dai favolosi e mitici greci dell’età dell’oro, la città da lontano era come un prisma di rose che proiettava la sua luce in tutte le direzioni.
Avevano navigato per due giorni e de notti non senza difficoltà, per un vento di bolina che induriva le vele e li aveva costretti più volte a deviar la rotta, ma gli equipaggi erano sereni e pieni di fiduciosa forza. Dalle loro bocche uscivano canzoni di guerra e d’amore, e i loro occhi erano lame precise di conquista. Nessuno dei suoi marinai aveva raccontato storie di mare durante le lunghe notti di navigazione. Nessuno aveva parlato, come altre volte, del Leviatano che inghiotte le navi aprendo le fauci grandi come il portale di una cattedrale, né del serpente di mare che avvolge le sue spire attorno allo scafo per trascinarlo negli abissi. Neppure il suo vecchio Nostromo aveva rievocato la solita piovra gigantesca i cui tentacoli strappano le vele e colgono i marinai sulle sartie. Nessuno aveva più paura del fuoco di Sant’Elmo che cade dal cielo e incendia i vascelli in un istante, né delle sirene che seducono i piloti più esperti sospingendoli nelle loro braccia dorate per portare la nave sugli scogli…
Tutti pensavano che sarebbe stato bello conquistare una nuova città senza lotta e spargimento di sangue, facendo semplicemente sventolare sul pennone più alto una bandiera sul quale ruggiva il potente Leone di San Marco… Pure, fra tanti, c’era un vecchio marinaio calabrese, vogatore alla conigliera, che, inascoltato, parlava di vergini sacre, sirene, creature misteriose che vivono negli abissi delle dodici colonne che sostengono la città, e che avrebbero protetto Gallipoli: “Esse sconvolgono il mare e i destini degli uomini”
Fu allora che l’Ammiraglio Marcello pensò ad una sera di vento, quando a Corfù, all’uscita dall’ammiragliato, una donna vestita di nero, dalle labbra tristi e dagli occhi di fuoco, lo aveva fermato: “Fuggi l’isola dai quattro angeli di vento. Stai lontano dalle città che hanno artigli e rostri dorati. Non avvicinarti alle mura di luce che cantano al suono della lira, poiché è là sotto che il diavolo ti aspetta”
Egli non capì quello strano linguaggio, ma qualche giorno dopo gli fu ordinato di prendere Gallipoli. Inviò il Comandante Malipiero su quelle rotte per scoprirne le eventuali insidie. Di ritorno dalle acque del golfo tarantino, Malipiero disse all’Ammiraglio: “E’ una piccola isola di luce e di vento. Il vento è feroce, un coltello che recide tutti i fiori, la luce è l’antico sacrificio degli dei. La muraglia è alta e ben difendibile, ma non vi sono uomini avvezzi alla battaglia. La prenderemo come si prende una conchiglia aperta”.
Capitolo 3°
Le quattro sorelle
Era l’alba del diciassette maggio 1484 quando l’orizzonte di Gallipoli s’accese dei velieri di Giacomo Marcello. Quel giorno lo ricordano ancora le quattro sorelle dagli occhi di cristallo. Maria, l’innamorata, che per tutta la notte aveva cantato alle stelle per il suo “zito” pescatore e si era fermata stupita premendosi forte il petto alla vista delle navi; Angela, che vide la rosa triste del suo piccolo giardino aprirsi improvvisamente per guardare il mare; Agata, che aveva vegliato tutta la notte con un angelo bizzarro e dispettoso nascosto nel cuore; Latonia, la più pudica, che si svegliò di soprassalto, nuda, con il viso ancora pieno di sogni e profezie, e s’affacciò turbata dal davanzale avvolgendosi con il lenzuolo e lasciando cadere le sue trecce blu nell’aria.
Le quattro sorelle corsero sotto l’albero del melograno, nei giardini del Cavaliere di Santo Francesco e tutte insieme cantarono l’inno al Signore:
“Signore della gioia, che stai sulle nubi leggere, fa che il tuo amore si diffonda nelle tue terre, nel tuo mare e tra la tua gente”
“Signore dell’Universo, che dai tuoi occhi fiorì il mare e dal tuo cuore nacque l’uomo, allontana da noi ogni male.”
“Signore delle rocce e delle spiagge, che col tuo respiro fai vivere i pesci nell’acqua e i gabbiani nei cieli, sospingi lontano i velieri”.
“Signore, proteggi sempre noi tutti, la nostra isola, il nostro mare e tutte le sue creature che vi abitano e ti amano”
Quel giorno anche i bambini corsero sulla riviera di scirocco svegliandosi dal mistero del sonno e il vecchio “zzì Vasinicò dimentico la sua stanchezza e pensò che era ancora giovane e forte per salire sull’alto della torre e vedere i velieri danzare
Capitolo 4°
Gli ambasciatori di Venezia
L’Ammiraglio Giacomo Marcello guarda l’isola, che s’apriva come una rosa bianca, in silenzio, in quell’alba così quieta e perfetta che celava sotto la veste azzurra coltelli di sangue. Gli parve che la bellezza di Gallipoli fosse racchiusa in una clessidrra misteriosa, nel passato di un’altra vita in cui la memoria calamita le aurore e i brividi delle pietre. Gli sembrò che in quel silenzio s’aprissero voci, echi, nostalgie, ricordi, ma una nebbia copriva la danza delle immagini e davanti ai suoi occhinon v’era che il balenio d’ombre del castello e dei bastioni turriti.
Due gentiluomi furono condotti sotto le mura da una caracca dall’alta poppa che riaccendeva d’azzurro il mare. Con le gallocce che la proteggevano dal contatto con la banchina , la nave attraccò sotto le mura festanti di grida, di fazzoletti e stendardi. Gli ambasciatori veneziani con l’else di luce delle spade ferivano il cuore dell’isola. I loro mantelli di seta frusciavano porpora e oro e le mani inanellate di gioielli si muovevano lente e sicure. Sorridevano, ma sotto i mantelli nascondevano coltelli di disprezzo. L’urlo della folla accalcata sui bastioni fece fuggire i pesci sotto la chiglia della nave. Quando s’acquietò il grande ventaglio di voci sulle loro teste imparruccate, gli ambasciatori parlarono con le loro voci cantilenanti e un gorgoglio di parole fece musica strana nell’aria. Le chitarre delle loro voci portarono promesse di franchigie, privilegi e protezione se Gallipoli avesse steso un tappeto di fiori per le strade e imbandierato le terrazze e i balconi al passaggio dei veneziani conquistatori.
“ Veniamo da amici”, dissero gli ambasciatori.
Ma il loro cuore era freddo e la loro voce metallica. Il vento si era fermato, si erano spente le grida di festa e i sogni avevano smesso di ballare nei capelli delle quattro sorelle,
“Siamo fedeli al nostro re”, disse il popolo ad una voce.
Le parole dei gentiluomini si fecero di miele e salirono nuovamente sui bastioni affollati.
“Venezia non vi chiede tradimenti, ma un’alleanza per fare più ricca e potente la vostra città”
“Via, via!” – disse il popolo.
“Venezia non vuole schiavi, né prede, ma una città amica, un’alleanza fraterna da gente di mare”
“Via, via!” – gridò il popolo.
“Chi è contro Venezia sceglie la morte”, minacciò una voce.
“Siamo fedeli al nostro re. Via, via!”
“Fateci parlare con il vostro Sindaco”, disse il più fastoso degli ambasciatore veneziani.
L’anima del paese correva sui merli delle torri e de palazzi, sui campanili delle chiese, sui tetti delle case sommergendo la voce del giorno che saliva, spezzando la voce del mare, che s’era fatta più cupa, mentre il cielo s’addensava di strisce di sangue.
“I cannoni delle nostre navi abbatteranno le mura”
“Le nostre mura l’ha erette Ercole e non crolleranno”.
Il General Sindaco vide che il cielo era un ragno immenso che tesseva una tela di rose, una tela sonora di fierezza e di battaglia. Sì, Gallipoli avrebbe difeso il suo onore fino all’ultimo respiro, fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo gemito, come sempre avevano fatto in ogni tempo i pescatori azzurri dell’antica madre Grecia. Gallipoli avrebbe difeso i suoi bastioni e la cremagliera di rocce grigie, le case, le chiese, le corti, le strade. Avrebbe difeso il suo cielo e gli uccelli, il suo mare e i pesci; ogni palmo delle mura antiche sarebbe stato difeso con i denti e le unghie. Il Sindaco era un precipizio di parole che urlavano sulle rocce, sul mare, nell’aria, ma dalla sua bocca non usciva nulla. Le parole gli rimbalzavano in petto come una pioggia di scaglie e lo straziavano. Aveva una spada nella gola che lo stava soffocando e non poteva parlare.
“Pazzi, pazzi, pazzi, pazzi”, dissero i veneziani sommersi dalle grida feroci della folla. Quel delirio vano di stupida gloria, quell’assurda fedeltà a un re bastardo, quell’inutile difesa, li avrebbe portati al massacro. Prima della nuova alba le pietre della loro terra arida si sarebbero rivestite di sangue.
“Via, via, andate via”, urlava il popolo.
“La vendetta di Venezia sarà dura. Sarete come bambini spauriti dinanzi al ruggito del Leone”.
“Allora chiederete pietà, ma non ci sarà alcuna pietà”.
“E le generazioni che vi seguiranno avranno il terrore al solo udire il nome della Serenissima”
“Voi non prevarrete contro di noi” – disse Santachiera -, poiché abbiamo trombe d’aria più forti delle vostre trombe d’oro”
“Pazzi, pazzi, pazzi, pazzi”, dissero i veneziani sciogliendo gli ormeggi.
“Via, andate via”, urlava il popolo.
Il General Sindaco con la spada nella gola urlava: “ Venite ad offendere il nostro onore con vili proposte e parlate di libertà! Voi non sapete che il seme della libertà ci germoglia dentro l’animo fin dalla creazione di questo scoglio di luce e germoglierà all’infinito sotto i nostri piedi. In quest’isola non nascono servi e ogni uomo è convinto di essere più forte della morte”. Ma nessuno poteva udire la sua voce, finché la spada non gli scivolò dalla gola. Allora ebbe il tempo di gridare dall’alto dei bastioni:
“Il Leone di Venezia non prevarrà mai sull’Isola”.
Il capitano scostò la nave con il vessillo bianco e le insegne della Repubblica dalla banchina e s’allontanò rapidamente dall’urlo della folla affacciata ai bastioni. Frusciavano al vento le vesti di seta degli ambasciatori di Venezia, ma ora le loro labbra non sorridevano più e i coltelli di disprezzo nascosti nei mantelli erano diventati serpi vendicative.
Capitolo 5°
Il sacrestano nano
Dal fortino della Madonna degli Angeli, dalla torre della Nunziata e da quella di San Luca cominciarono a tuonare i primi colpi di cannone e l’aria si fece piena di nebbia e di fumo.
La quattro sorelle salirono sul campanile della Madonna della Purità per vedere, ma non riuscivano a scorgere nulla.
“Non si vede nulla”
“L’anima del fumo ha imprigionato la luce”
“Il vento è morto. Ora sale la nebbia”.
“Anche il sole si è nascosto e il mare è una lastra grigia”
“Via, via, andate via”, le inseguiva il sacrestano nano cercando di allontanarle da quell’altezza pericolosa. Ma loro gli sfuggivano, lo eludevano facilmente e ridevano.
Tutta la città era in preda ad una passione ruggente, virile, senza paura né scoramento, ogni uomo e ogni donna fondevano i propri pensieri e le proprie emozioni nella battaglia contro i veneziani mentre il cielo era gravido di polvere biancastra e i gabbiani ignari scatenavano la loro innocenza in una danza di voli.
Il sacrestano nano continuava a sbracciarsi invano per scacciare le quattro ragazze che gli saltellavano attorno, i cannoni continuavano a squarciare l’aria, le navi cercavano riparo; c’era un clamore, un frastuono che si eternava. Nessuno pensava al domani, a domani, quando il mare e il vento sarebbero tornati a gettarsi contro i muri trasportando con sé navi, macchine da guerra e grida forestiere per l’assalto definitivo alla città.
“Via, andate via”, continuava a gridare il sacrestano nano alle ragazze che si prendevano gioco di lui con ingenua e gioiosa incoscienza mentre le palle di ferro s’incastravano nelle mura sbrecciate.
(continua)