di Antonio Errico
C’è un libro di Gillo Dorfles che si intitola Horror Pleni; il sottotitolo reca La in (civiltà) del rumore.
Questo tempo è ricolmo di rumore.
Il chiasso rimbombante, il grido immotivato, l’espressione scomposta, la verbosità prepotente, hanno mortificato la comunicazione, il mettere in comune, in comunione il pensiero, le storie. Una (in) civiltà del rumore ininterrotto invadente aggressivo secco assordante. Cupo. Che cresce, si spande, dilaga per le città, i paesi, i cortili, i vicoli, le piazze, il borgo antico; si insinua nelle case, aggredisce la quiete, sconvolge gli equilibri tra il giorno e la notte.
Il rumore. Come il ronzio di uno sciame d’api amplificato e ossessionante. Come l’abbaio di una muta di randagi affamati. Un rumore che proviene da ogni direzione, in forma di frastuono, rintrono, stridore, chiasso, fracasso, gazzarra, cagnara, baldoria, tumulto.
Un rumore fatto a strati. Che si accumula, si sovrappone, si confonde. Un rumore senza ragione, né giustificazione. Un rumore che fa il vuoto. Un rimbombo. E’ come il gracchiare sordo delle vuvuzelas. Sommerge la parola, sommerge e annega il pensiero. In questa condizione non c’è nessuno che parla, nessuno che ascolta. La relazione tra le persone diventa muta, separata dalla muraglia del rumore.
Centosettantuno anni fa, nei Parerga e paralipomeni, Arthur Schopenhauer diceva che se questo mondo fosse popolato da esseri realmente pensanti, sarebbe impossibile che il rumore di ogni genere fosse permesso senza restrizione e abbandonato all’arbitrio, come avviene perfino per i rumori più orribili e nello stesso tempo insensati.