di Antonio Lucio Giannone
Ma ormai siamo arrivati al 1952, un anno fondamentale per Bodini e per la conoscenza di Lorca in Italia. Quell’anno infatti vedono la luce la prima raccolta di versi del poeta leccese, La luna dei Borboni, con le Edizioni della Meridiana di Milano, e la traduzione del Teatro di Lorca presso l’editore Einaudi. Questo volume conteneva tutte le opere teatrali dello scrittore spagnolo allora conosciute (da Nozze di sangue a Yerma a La casa di Bernarda Alba, tanto per citare le più note, quelle che lo stesso Bodini considera i vertici del suo teatro), che da allora sono state messe in scena, nella sua traduzione, dalle principali compagnie italiane. Ma egli ovviamente non ci dà solo una splendida e ancora adesso insuperata traduzione, ci dà anche, con le pagine introduttive, un’acuta interpretazione, da autentico poeta, dell’intera opera di Lorca. Vorrei citare almeno un brano di questa prefazione, quello in cui è rievocato l’episodio della morte del poeta, su cui poi Bodini ritornerà quasi ossessivamente in altri suoi scritti, perché riteneva questo episodio un controsenso, un’assurdità più di quanto non lo sia normalmente per un essere umano morto giovane, in quanto, come egli scrive, Lorca «era la vita stessa»:
Due curiose notizie si riferiscono al principio e alla fine della parabola umana di Federico García Lorca. Scrive Guillermo de Torres, il critico alle cui amorevoli cure dobbiamo l’edizione completa delle opere lorchiane, che per una strana civetteria il poeta non volle mai confessare il proprio anno di nascita, che i critici hanno dovuto far cadere per supposizione fra gli anni 1898 e 1899. L’altra testimonianza, da noi raccolta, riguarda la morte del poeta: quando lo tolsero dalla casa d’un amico dove pensava d’essere al sicuro, e lo portavano a fucilarlo nel paesino di Viznar, sotto Granada, per tutto il cammino lloraba como un niño, piangeva come un bambino. Chi lo dice, lo fa abbassando la voce, perché per uno spagnolo è la più grande vergogna. […] La prima di queste due circostanze ci dice l’avversione del poeta a storicizzarsi, a offrire un punto di partenza per il consumo di quel bene, della cui privazione un giorno egli avrebbe pianto como un niño. Per non dover morire, non voleva egli ammettere neanche d’essere nato, il tal giorno il tal anno. La sua presenza aderiva alla vita in modo così pienamente meraviglioso che egli era la vita stessa nel suo infinito presente. Tutta la sua poesia era una dichiarazione obiettiva dell’essere, che la mancanza di sforzo rendeva estremamente gioconda: bastava che dicesse luna e la luna esisteva, che dicesse coltello, e un coltello brillava, che dicesse stella, cavallo, fiore… Questo pensiero sorridente del mondo e dei suoi movimenti e colori, da cui scaturiva una perenne creazione, altro non era che un riscatto dalla morte che abita negli esseri e nelle cose.[1]