Così potremmo, con qualche approssimazione, portare verso la parafrasi il dettato poetico di Amelia Rosselli. Ma questo tentativo, ci si accorge subito, toglie alla poesia il suo soffio, sottrae alla poesia la musica, il tempo e lo spazio musicale in cui essa respira e in cui consiste. Perché nessun verso di Amelia Rosselli lo si può sottrarre all’incantamento che trema nelle parole, e sostiene le sillabe. Nessun verso lo si può spostare, senza infrangere la sua bellezza, dallo spazio dell’ascolto – ascolto musicale e interiore – verso lo spazio del senso: il dantesco “legame musaico” è la vera “ragione” poetica di questa poesia.
La poesia di Amelia Rosselli è, insomma, un corpo che ha vene e arterie musicali, cellule musicali. E il dolore, che è trama del sentire, e la visione, che è aria stessa in cui respira la parola, salgono alla luce del suonosenso che è la poesia solo quando entrano in uno spazio musicale. Spazi metrici è lo scritto di Amelia Rosselli che mostra il rigore compositivo della partitura poetica, uno scritto nato su sollecitazione di Pier Paolo Pasolini: margine riflessivo di una o più conversazioni intorno al fare poesia che il poeta delle Ceneri di Gramsci ebbe con l’autrice della Libellula e delle prime Variazioni belliche.
In quello scritto, del 1962, Amelia Rosselli dà forma riflessiva al suo comporre, il quale è un’attività analoga al comporre del musicista. La lunga formazione musicale trova nella lingua della poesia la materia per dir così appropriata: un insieme di suoni e silenzi, di suoni e idee da sollevare verso la forma del dire musicale. La sillaba, in quello scritto, è osservata come “particella ritmica”, la parola come idea: c’è qui, in questa parola poetica come “idea”, forse l’eco, mediata da altre letture, di quella “idée même et suave” di cui diceva Mallarmé a proposito della pronuncia poetica di un nome (“Je dis: une fleur”).
Ma anche la frase e il periodo hanno, per la futura autrice di Serie ospedaliera (1969) e di Impromptu (1981), il loro tempo musicale. Un tempo che è anche uno spazio: nella cornice di questa struttura, dunque di questo “tempo-spazio assoluto”, di questo “quadrato a profondità ritmica”, per usare definizioni della stessa compositrice, prende movimento e suono e presenza il verso, la sua durata, la sua misura, la sua energia.
Ma come il verso è parte di un’unità ritmica più ampia, e ben definita, così il blocco di versi che costituiscono quello che usiamo definire una poesia e che campeggiano nel bianco della pagina è spesso momento di una sequenza più ampia, quasi movimento musicale di una più larga composizione. I versi sopra citati, per esempio, sono preceduti, nella pagina precedente, dal testo poetico che comincia: “O rondinella che colma di grazia inventi le tue parole e fischi libera / fuori d’ogni piantagione…”, e sono seguiti, nella pagina successiva, dal blocco di versi che comincia con “Questi uccelli che volano / e questi nidi, di tormento fasciano /le inaudite coste…”. Un annuncio, prima, una risonanza, dopo.
Ma, detto questo, anche con il ricorso alla preziosa riflessione di poetica affidata allo scritto Spazi metrici, si è detto poco e si è colto poco della poesia di Amelia Rosselli, se non ci si dispone a percepire, nello svolgersi dei versi, quel miracolo, così raro, che è la congiunzione del dolore con la grazia del verso, della spina e del tormento interiore con la dolcezza immaginosa e tenera del dire.
Perché proprio in questa difficile congiunzione di dolore e tenerezza sta tutta l’energia del dire poetico di Amelia Rosselli. La poesia così vissuta e praticata è una lingua che è oltre il corpo, è in certo senso “en avant” del corpo (uso quello stesso “en avant” di cui diceva Rimbaud in rapporto all’azione: la “poésie ne rythmera plus l’action; elle sera en avant”).
E tuttavia, quel dolore fatto poesia non è sufficiente a liberare il corpo dalla sua pena, dal suo assillo: questo avvertiva con mai risolta inquietudine Amelia Rosselli (ho vivo nel ricordo uno dei nostri lontani incontri, cornice una bianca saletta d’ospedale: lei, quasi accorata, mi chiedeva quanto, secondo me, Leopardi fosse stato abitato dal dolore). Oltre quel dolore del corpo, e contro quel dolore, Amelia Rosselli ci ha dato versi che uniscono la leggerezza del sentire e del vedere con la dolcezza del movimento musicale. Ecco un attacco, tra tanti:
Quello stormire violento di uccelli, quel loro vezzoso
rialzarsi in sciami dagli alberi più duri.
E ci ha dato versi come quelli in cui la luce della visione, la sua inattesa irruzione, coinvolge teatralmente il soggetto, e una presenza corporea si mostra nel ritmo di un dire che musicalmente l’accoglie e sostiene:
L’alba si presentò sbracciata e impudica; io
la cinsi di alloro da poeta; ella si risvegliò
lattante, latitante.
E ci sono versi, lungo la tessitura del dire poetico di Amelia Rosselli, in cui il vedere segue un movimento che, musicalmente, si definisce via via, fino a rivelare l’insieme con l’evidenza luminosa di un dipingere attentissimo ai particolari:
Un blu che non è nemmeno un blu o comunque
è un blu chiaro chiaro chiaro e la polvere
sembra mischiata all’aria essendo un
poco gialligno il cielo che è stesura
di sabbia
…
Sono alcuni esempi in cui tempo poetico e tempo musicale, coincidendo, mostrano nella parola, nei silenzi, nelle sonorità, il dischiudersi di una presenza. Il greco poiein, in cui consiste quel che diciamo poesia, è appunto questo prender campo, nella musica del dire, di una presenza.
Quanto al nodo di dolcezza che vincola la parola alla musica, l’immagine al sentire, la visione al pensiero, i versi di Amelia Rosselli spesso sono come in dialogo con quelli di un poeta da lei amato, Dino Campana. E c’è un altro poeta che, forte amico degli anni giovanili, è presente, non nelle forme della poesia, ma nella sottesa passione civile: Rocco Scotellaro. Qualcosa di quel lontano dialogo con la luce del Sud e con il dolore di una terra ferita deve esser passato nei luminosi e insieme dolenti versi di Amelia Rosselli.
[“Doppiozero” del 24 ottobre 2022]