Potere e territorio

Prima e dopo la Rivoluzione francese

Ma che cosa diciamo, in realtà, quando parliamo di “territorio”?

Il volume aiuta a capire che non sempre la parola “territorio” ha significato la medesima cosa. La concezione moderna di “territorio” è nata nella Francia rivoluzionaria, quando esso fu inteso per la prima volta “come uno spazio vuoto e giuridicamente neutro, coincidente con le frontiere dello Stato e rimesso alla totale disposizione degli organi costituzionali di quest’ultimo, i quali possono suddividerlo, qualificarlo e articolarlo al suo interno guidati solo dalle esigenze di una razionalità puramente individualistica”; mentre invece “il lungo passato… collocato alle spalle del tardo illuminismo e della Rivoluzione non solo non condivideva per nulla questa visione statocentrica e convenzionale della spazialità, ma si basava su una concezione di segno per molti versi diametralmente contrario” (Luca Mannori, La nozione di territorio fra antico e nuovo regime. Qualche appunto per uno studio sui modelli tipologici, pp. 23 e 24).

Come sempre negli studi storici, la Rivoluzione francese è il grande discrimine epocale. Al di là, il vecchio regime con le sue consuetudini e i diritti legati al territorio, al di qua, la determinazione razionale, fatta a tavolino, di un diritto da imporre agli abitanti dei territori, spesso a prescindere dalla loro volontà. Si pensi agli usi civici per lunghissimi secoli riconosciuti agli abitanti del Meridione: “Erba, legna e acqua, frutto della natura e quindi dono di Dio restavano infatti a disposizione delle popolazioni che si trovavano ad abitare sul territorio prima della conquista bellica, assimilata all’originaria divisione dei domini” (Stefano Barbacetto, Territorio e sfruttamento comunitario delle risorse: letture dottrinali (secoli XV-XVIII), p. 116); usi civici negati alla popolazione con l’avvento del nuovo regime. E si pensi allo sfruttamento dei boschi e delle risorse montane del suolo e del sottosuolo, la cui storia mostra bene il passaggio da un’età all’altra, dalla gestione locale della comunità montana all’amministrazione centralizzata dello Stato moderno: “Lo Stato moderno viene a scontrarsi con le forme e gli organismi della gestione tradizionale dei boschi: ed è anche un conflitto con i dettami della nascente scienza delle foreste, alla quale lo Stato afferma di ispirarsi, e le pratiche e i saperi popolari consolidati e affinati nel corso dei secoli precedenti all’interno delle comunità locali” (Antonio Lazzarini, “Boschi e territorio in area veneta”, p. 165; ma sulla questione si legga anche l’intervento di Agnese Visconti, Suolo e sottosuolo dall’assolutismo asburgico all’età napoleonica. Il mutare dei ruoli dei boschi e delle miniere nelle valli lombarde, pp. 173-187).

Territorio terribile

In ogni caso, “territorio” è sempre una parola “terribile”: “Territorium a terrendo vocatur”, ripetevano i giuristi medievali. Ovvero esso è disciplinato dallo “ius terrendi”, cioè il diritto di atterrire o, come spiega Barbacetto, dalla “potestà (anche) punitiva del relativo magistrato” (p. 101). Ma anche qui va sottolineata la differenza nel passaggio dall’antico al nuovo regime, che si comprende bene, per esempio, considerando le attività della “police” in Francia nell’epoca dell’Assolutismo: Police non designa più l’ordine iscritto nella comunità, ma anche l’azione sovrana capace di crearlo. Soprattutto nel corso del XVII e XVIII secolo questa seconda accezione diverrà dominante…” (Paolo Napoli,  Police e territorio nella Francia di Ancien Régime, p. 58). L’Assolutismo, difatti, diverrà l’età dei famigerati “mouchards”, gli spioni, antenati un po’ rozzi dei nostri 007, a cui nulla di quanto accadeva nel regno doveva sfuggire.

Il controllo del territorio: questa è la parola d’ordine di tutti i regnanti. Controllo che non si può avere senza una conoscenza del territorio medesimo e, dunque, senza la costruzione di vie di comunicazione che ne facilitino i percorsi, spesso a scopo bellico. Si pensi, per fare un esempio piuttosto eclatante, al progetto voluto da Napoleone, di “unire direttamente l’Adriatico e il Tirreno con una via d’acqua”, che avrebbe consentito alle navi di Napoleone “di raggiungere l’Adriatico senza circumnavigare il Regno di Napoli per evitare la flotta inglese di stanza in Sicilia” (Aldo Di Biasio, Vie di comunicazione e territorio in Italia tra Trésaguet e Mac-Adam, p. 156). Non se ne fece nulla, s’intende, ma la grandiosità del progetto la dice lunga su quanto già allora il potere confidasse nelle potenzialità della scienza che cominciava a fare passi da gigante.

La cartografia

Un ruolo fondamentale in quest’opera di controllo del territorio lo giocano le carte geografiche: “la cartografia costituisce uno strumento potente per dare una forma territoriale alle regioni rendendole visibili e concepibili come unità spaziali delimitate” (Maria Luisa Sturani, Le rappresentazioni cartografiche nella costruzione di identità territoriali: materiali e spunti di riflessione dalla prospettiva della storia della cartografia, p. 192). Non c’è dubbio, difatti, che uno strettissimo legame unisca cartografia e esercizio del potere. Si considerino le carte derivate dalla “misura generale” della Savoia, ordinata nel 1728 da Vittorio Amedeo II, nelle quali “la mappa … registra e fissa i limiti delle proprietà attraverso il disegno geometrico della maglia parcellare, imponendo sullo spazio una disciplina che promana dalla “sovranità proprietaria” prim’ancora che da quella dello Stato” (Sturani, p. 207).

Quando incominciò a delinearsi questa volontà cartografica? “A metà Cinquecento”, quando si passa “dalla relazione diretta con la realtà alla sistematica e pervasiva relazione con la sua immagine … in breve: dallo scambio, in regime di assoluta equivalenza, tra il mondo e la figurazione cartografica del mondo stesso” (Franco Farinelli, Per la genealogia del territorio moderno, p. 234). Hobbes qui è il filosofo di riferimento, Hobbes col suo Leviatano, per il quale “il mondo è un enorme, immane carta geografica” (Farinelli, p. 241). “L’esito della modernità, conclude Farinelli, consiste dunque davvero nella riduzione, attraverso il “mapping”, del mondo ad una mappa, ad una tavola” (p. 244).

Territorio, dunque, divenuto irreale, aperto alla nostra conoscenza solo per interposta mappa; la quale deve necessariamente avere dei punti di riferimento precisi. Per esempio, nell’Ottocento, i fari lungo il litorale: “la costruzione della rete dei fari è l’applicazione al territorio di una scienza “in azione”, vicina al potere politico. Il litorale è uno spazio che, dalla nave, deve leggersi come una lingua razionale di luce”. S’intenda: “Da solo, un faro non esiste, perché la sua intelligibilità dipende da altri fari e soprattutto da documenti scritti (l’elenco dei fari, le carte nautiche)… non compilati sul litorale, ma a Parigi” (Vincent Guigueno, Il litorale francese fra storia e memoria, p. 252). D’ora innanzi, dunque, non dovremo mai dimenticare che la suggestione di un faro nasconde una storia di un potere che da lontano si è appropriato di un territorio e lo ha dominato con una semplice luce.  Ma “lo sguardo nostalgico dei turisti… non si cura troppo della dimensione politica del territorio, ma solo della bellezza del paesaggio”, nota con una certa rassegnazione Guigueno (p. 253).

Il paesaggio

Ma che cos’è in realtà il paesaggio?

Ecco una prima definizione: “Il paesaggio italiano va … inteso come l’esito di un complesso e stratificato lavoro di costruzione e trasformazione operato dall’uomo nel corso dei secoli…” (Alberta Cazzani, Il paesaggio come sistema di segni della storia naturale e della storia degli uomini. Lettura dei significati e progetto di tutela e gestione di un patrimonio in costante evoluzione, p. 264). Si può concordare con questa definizione, certo; ma a mio avviso il paesaggio è anche qualcosa d’altro. Provo a dirlo con le parole di due scrittori (citati da Bruno Vecchio, E utile parlare di territorio in termini di paesaggio?, p. 320). Il primo è Massimo Venturi Ferraiolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Roma, Editori Riuniti 2002: “Il paesaggio diventa … una parte estranea e una compensazione per ciò che si è perduto”. Che cosa si è perduto, se non il mondo qual era in passato, nelle sue innumerevoli manifestazioni “territoriali”? Il tempo, credo che voglia dire lo scrittore, in gran parte sembra essersi disfatto della storia, consentendole di depositarsi nel paesaggio solo in modo residuale. La sua lontananza dallo sguardo presente esprime il nostro vano desiderio di conoscenza di quanto non è più. Di qui, forse, la suggestione del paesaggio.

Infine, Vecchio riporta il pensiero di Claude Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Alinea, Firenze, 2005. Raffestin, professore di Geografia all’Università di Ginevra, pensa che “i territori diventano per lo più paesaggi… dopo la scomparsa delle “territorialità” che li hanno plasmati. Il paesaggio, insomma, come una pratica post-mortem” (Vecchio, p. 320); territorio morto, davanti al quale, vien da pensare, scorrono turisti che ne contemplano il muto rassicurante cadavere, privato com’è d’ogni “terribilità”. Sono tesi estreme, che la dicono lunga su come il paesaggio, soprattutto nelle sue forme stereotipe, sia un’invenzione tutta moderna, frutto dell’ideologia che spesso utilizza lo studio della storia in modo strumentale. Come non pensare anche alle numerose carnevalate che abili amministratori locali ammanniscono ai turisti in cerca di un “divertimento culturale” e che nulla hanno a che fare con l’identità degli abitanti del territorio?

Per una nuova didattica della storia

Per questo motivo occorre che una sana ricerca continui a indagare a fondo il passato, perché esso ci venga restituito secondo un’accurata ricostruzione storica. Non è un caso che Luigi Blanco pensi alla storia come ad un sapere imprescindibile per le nuove generazioni. Lo sguardo dei giovani, egli scrive al termine della sua Introduzione (p. 20), è “distratto dal bombardamento mediatico e comunicativo della nostra quotidianità”. Con tanta maggiore convinzione, allora, occorre accogliere l’appello del curatore di questo volume a rinnovare la didattica della storia, nella quale i temi del territorio e del paesaggio sono piuttosto trascurati. Destare nei giovani  l’interesse per questi temi, egli scrive, “serve per recuperare le tracce e i segni del passato che ancora vivono nel presente e per progettare più consapevolmente il proprio futuro.” (p. 20). Sul che non possiamo che concordare con l’autore. Non è in questione, s’intenda, una riproposizione dell’antico adagio historia magistra vitae – sappiamo infatti per innumerevoli prove che mai nulla la storia ha insegnato all’uomo -, quanto la necessità di pensare per il futuro un individuo consapevole di sé e del suo passato e, dunque, migliore.

[Recensione a Organizzazione del potere e territorio. Contributi per una lettura storica della spazialità, a cura di Luigi Blanco, Franco Angeli, Milano, 2005), “Il Galatino” di venerdì 11 giugno 2010, p. 4]

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