di Antonio Devicienti
Quello di Vincenzo Ciardo è sguardo amorosamente dispiegato sulle terre salentine – non scrivo di proposito “sul paesaggio salentino”, orribile espressione inflazionata e guastata dalla tendenza sempre più diffusa a imbalsamare una certa idea della Terra d’Otranto (già di per sé falsa e poi ulteriormente falsificata) in nome dell’onnipotente dio del turismo.
Le terre delle civiltà salentine (di quella marinara, di quella contadina, di quella della macchia mediterranea, di quelle estinte) sembrano concedersi con pudore e nobiltà allo sguardo del pittore, sospendendo il tempo in una fissità d’icona.
Mi assale infatti il sospetto che Vincenzo Ciardo sia l’ultimo pittore d’icone in terra salentina e che gli olivi, i lentischi, le pajàre, i pleniluni siano le sacre immagini di una religione quasi lucreziana e visionaria.
La preghiera rivolta all’icona è materiata, infatti, anche della contemplazione capace di condurre oltre il dato visivo e rappresentativo: per chi cresce in Terra d’Otranto e viene educato, talvolta inconsapevolmente, all’ineludibile presenza degli olivi e della pietra, degli orizzonti marini che sono silenzio e lontananza, probabilmente nutre in sé questa fedeltà alla visione.
La fedeltà alla visione accende di antichissima sapienza l’opera di Vincenzo Ciardo, l’avvicina a quella dei suoi sodali, Vittorio Pagano, Vittore Fiore, Vittorio Bodini e Girolamo Comi, la strappa all’isolamento della “periferia infinita”, chiede di essere guardata, pretende che nuovi sguardi sottentrino allo sguardo perché la Terra d’Otranto vista da Gagliano del Capo, dunque de Finibus Terrae, sta nel cuore del pensiero meridiano.