Nei bar notturni di Rimini, tra i lidi sterminati del lungo mare, nei piazzali, nelle stanze della casa d’infanzia, Sandro assiste all’originarsi del dolore di suo padre, ritrova il fantasma di un amore perduto, assiste al suo innestarsi nel corpo vero e presente di un amore nuovo, affronta incessantemente una “lei” che ritorna. Costantemente, negli oggetti, nei luoghi, nei ricordi: “Lei, con la sua smorfia di mamma”. C’è una madre in questo romanzo che, seppur morta, non è affatto uno spettro ma si muove tra le pieghe del testo in tutta la sua concretezza, ancora tra loro, tra padre e figlio, tra il tavolo della cucina e il comodino della camera da letto, a passi di danza, come in quelle gare di ballo alle quali lei e Nando partecipavano. Nel realizzarsi di tale figura, lo scollamento tra passato e presente è impercettibile ed essa assume tale concretezza nelle parole di chi la ricorda da gonfiarsi dello stesso spessore caratteriale degli altri personaggi. In questo senso, Avere tutto si colloca in un flusso letterario in cui la figura materna risulta centro della dimensione narrativa: c’è Poe che attribuisce ai suoi personaggi femminili pallidi e malati le sembianze della madre Elizabeth, Faulkner che impone ai Bundren una figura materna defunta che risorge spaventosamente corporea nei monologhi dei suoi cari, Carrère bambino che, in una piscina inondata di sole, con il mento fuori dall’acqua, con la mano dell’istruttore sotto la pancia, è felice di nuotare verso sua madre che lo guarda, bellissima. Missiroli si introduce in questa tradizione quasi di soppiatto, delicatamente e silenziosamente, con un libro che sembra nascere per un padre ma contiene in sé anche tutte le tracce dell’amore materno.
Tutta la vicenda del romanzo di Marco Missiroli ruota attorno al significato di avere tutto. Cos’è per Sandro avere tutto? È qualcosa che ha a che fare con il rischio, con la felicità, con l’amore? “Una donna giusta”, ”la casa a Londra”, “l’Oscar per una pubblicità”, “il vizio”. E poi la risposta arriva dalla bocca di suo padre: “Alla fine mi sa che vogliamo solo le due o tre cose per cui veniamo al mondo”. Suo padre e sua madre, Nando e Caterina, sono venuti al mondo per incontrarsi in una balera di Milano Marittima e sposarsi e ballare insieme “nelle stanze di casa, i talloni e le suole a sbanchettare, in garage, i polpacci tesi e le braccia a fiocco”. “Sandrin” viene al mondo per giocare e perdere. Poi giocare ancora e vincere e poi scoprire di poter lasciare andare Giulia respirando l’odore tra il collo e il mento di Bibi, e ritrovare Lele e gli altri amici per andare al bar Laura, come facevano da ragazzini. “Avere tutto”, allora è un romanzo sul dolore. Ma sul dolore che poi, sepolto sotto il buio della terra, si dissipa per lasciare germogliare nuova luce.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 4 novembre 2022]