Dialetto bello. Arcaismi e movimenti d’anima. Voglio eppure ho paura. Paura della morte. Non è possibile leggere i dodici testi poetici che compongono questa silloge fermando la lettura. La prima lettura tiene in un filo che avvolge le parole legandole d’imperio al senso del loro scorrere.
Sembra di entrare in un reputo contemporaneo sgranato non per un singolo defunto ma per l’intera umanità che si chiede senso e arte dell’andare. L’arte dell’andare è nel passo che rammemora, nel passo dimentico, nel passo che s’inceppa per fallimento e vuoto di vita. Par di tornare indietro nel tempo allorchè anziani, sul punto del trapasso, parlavano con i morti e con la morte arrendendosi a quell’artiglio che uncinava la mente rapendoli in un aldilà dinanzi al quale s’alzava la recita cantilenante del Rosario.
“Addu stane moi li morti ci stane qquai a tutte ‘e vande?”
“Dove sono ora i morti se sono qui in ogni dove?”
Nell’andare si esce dalla stanza, le mura sgretolano lasciando vedere “a ripa te le cose” “i bordi delle cose” quel limine che le tiene giusto un attimo prima che si sbriciolino irrimediabilmente. Dov’è lo sgretolio ultimo? E’ dentro o fuori? Ai morti, nei riti delle anime pezzentelle si riconoscevano comportamenti umani ma, soprattutto, si riconoscevano rivolgimenti di atteggiamenti. Un cranio lucidato, tenuto, alter-ego, di colpo poteva divenire fonte di timore e tremore. Nell’universo arcano greco non v’era bisogno di possedere l’anima attraverso oggetti. La morte per gli eupàtridi era rappresentazione in affreschi, rappresentazione di simboli: viaggio, melagrana, cavaliere, banchetto, soglia attraversata dando le spalle. Nella silloge di Donaera torna la corporeità della morte. E’ morte che s’avvita nel recondito gioco con la vita. E’ morte che recita la parte di un alter-ego pronto a sottrarre realtà. Alter-ego che si nutre della miseria della luce, suo è “l’autunnarsi”, il perdere ciò che è nel di più,
“Ma comu po’ essere ca tuttu te face tannu
e tuttu torna ‘rretu e tuttu ete nu cuzzettu
su’ ‘nnaddhu cuzzettu su’’nnaddhu piettu
su’ ‘nnaddha ventre? Pote, e gghié, cusì”
“Ma come può essere che tutto ferisce
e tutto torna e tutto è una pietra
su un’altra pietra su un altro petto
su un’altra pancia? Può, ed è, così.
La visione della morte è terrena. e’ morte di credenze e di visioni vicine. Della morte, Donaera, narra la prossimità, l’invito che i trapassati fanno ai vivi: raggiungerli mentre loro entrano ed escono a piacimento dal Regno dei Vivi. Nella notte si snodano le ore. Sono le Ore in cui la morte incute la paura lasciando che tutte le ossa tremino nel toccare l’apice delle domande sulla vita.
Te le nonne ricòrdete
‘e mani te farina:
l’ùnicu jancu ca forse te tocca,
comu’ na luce ‘nsarràta te le palpebre,
quandu crai scaòrti ‘a terra, quabdu
crai stai intra ‘llu scuru, a’n terra
“Delle nonne ricorda/le mani di farina:/l’unico biancore che forse avrai/come una luce chiusa dalle palpebre/quando scaverai la terra, quando/sarai nel buio, nel nero, per terra”
Presente la dimensione dello scorticare, del grattare. E’ dimensione del sottrarre che giunge all’osso, a quella sorta di mineralizzazione della materia che ne separa i componenti lasciandone rilucere l’essenzialità. Nella silloge c’è un respiro di freddo che gioca a nascondino ri-cantando il ritmo prefico dell’accompagnamento al viaggio: quel ritmo-madre che s’intana nel buio ferale d’ogni utero cosmico. Non è possibile barare, i morti sono ovunque e ridisegnano i contenuti dello sguardo lasciandolo sprofondare in ctonie viscere. L’occhio dell’io poetico, in Donaera, è esterno. Lo sguardo accarezza la distanza della separazione e del limite lasciando che ogni tratto sia nella propria intima determinazione.
E’ un attimo di poesia che porta indietro e dentro all’anima del reputu. E’ l’antico, antico di una cultura imbevuta di quella sotterraneità che allude sia al passaggio nel collo dell’utero che al passaggio nel canale che porta alla dimensione sotterranea dello scavo nella pietra: tomba, frantoio, cunicolo, cripta, cisterna e –anche- anfratto di pensiero. Dodici testi poetici sospesi al filo della fonda recitazione, dodici testi che pretendono lettura per esprimere la propria musicalità antica, ondulante. E’ un antico che è stato capace di mostrarsi e dirsi, ancora e… dopo la lettura occorre coprire, coprire subito. Coprire con un pizzuddhu, tessuto per dote composto nello sfrido dei fili, nello sfrido di trame e orditi di millenari telai.
“…
Nu iou more e ‘n’ addhu nasce, pare, nu
iou, quiddhu mortu a te te serve, te serve
ccu llu leggi, comu libri,
comu ddhi libri ca
laggìene te le ‘ntrame,
ttocca se ‘nnichene, moi, ‘e ‘ntrame”
“…
Un io muore e un altro nasce, pare, un
io, quello morto a te serve, ti serve
leggerlo, come libri,
come quei libri che
leggevamo di pancia,
bisogna straziarla, adesso, la pancia.”
Dodici testi poetici che portano dolci, alla mente, i Canti di pianto e d’amore di Brizio Montinaro (Bompiani, 1994) storica ricerca compiuta nel continuo scambio con Maria Corti
Dodici testi poetici: un unico reputo che ci narra di una Legge della Vita: affinché qualcosa nasca, qualcosa deve pur morire, è questo il pegno che la vita chiede alla morte e la morte alla vita nella loro ferale danza anelante la Luce. Di ciò, Donaera, traccia segno leggero in I vivi. Un tremore.