di Antonio Devicienti
Questa volta l’inchiostro numero 13 abbandona il rigoroso bianco e nero per colmarsi dei colori degli abiti delle persone e della luce di Provenza della fotografia che il filosofo François Fédier scatta nel settembre del 1966 in una piazzetta di Le Thor nel Vaucluse; è in corso il primo dei seminari che Martin Hedegger tiene in terra di Provenza su invito di René Char (1966 e 1968) e, durante una pausa, i partecipanti osservano gli anziani del paese giocare a bocce.
Chiunque abbia percorso la Provenza sa quanto quel gioco sia amato e praticato, quanto curati e perfettamente attrezzati siano i luoghi deputati alla pétanque.
Sulla sinistra c’è un giovanissimo Giorgio Agamben, quasi al centro un gigantesco René Char e, vicinissimi, Jean Beaufret e Martin Heidegger; esiste un’altra foto, in bianco e nero, di Char e Heidegger ripresi di spalle, l’uno al fianco dell’altro mentre camminano assorti nella conversazione: il poeta appare gigantesco accanto alla figura minuta del filosofo.
Ma desidero giocare, in questo mio inchiostro, con la fantasia, esattamente come gli anziani Provenzali giocano, seri e appassionati, sotto gli occhi di Char e degli altri del gruppo. Ebbene, i lanci delle bocce di metallo (e che devono essere effettuati da fermo) hanno come scopo quello di avvicinarsi il più possibile al “cochonnet”, la biglia che è la meta dei diversi tentativi. Esiste dunque una connessione profonda tra lo sguardo e la sua capacità di valutare distanza e forza del lancio, sussiste un legame intimo tra la mente che valuta e il corpo che tutto si tende ad accompagnare braccio e mano nel gesto.
Le figure geometriche (invisibili) che prendono forma mentre il gioco procede e i giocatori si spostano, reagiscono, commentano hanno la bellezza di un’effimera danza che non potrà mai più essere ripetuta, se non nel fatto ch’essa avrà luogo di nuovo e ancora e ancora, ma sempre diversa. E sarà danza al fine di corteggiare la biglia cui avvicinarsi più degli altri, cui prendere i punti per la vittoria finale.
Osservare quegli uomini jouer de la pétanque e farlo dopo aver dedicato ore di lavoro a testi di filosofia significa spalancare sé stessi alla luce dolcissima della Provenza e ascoltare la complicità dell’amicizia e del gioco lì dove la vita quotidiana del villaggio è fatta di ricordi comuni, del piacere di passare insieme alcune ore, di esercitare l’arte di un gioco popolare perché appartenente a un popolo antico e fiero.
Tutto il gruppo dei partecipanti al seminario si porta dentro il tempo dilatato del pensiero europeo e dei suoi urti con le violenze della storia, quegli anziani che giocano come si deve sempre giocare (con la serietà pretesa per chi vuole essere all’altezza di precise regole) accolgono in sé e tra di loro il tempo del riposo che ha, alle sue spalle, tempi di lavoro e di pericoli corsi, di dolori attraversati: più di uno tra di loro (ne sono certo) riconosceva nell’uomo alto e ben piantato sulle gambe, l’eterna sigaretta in bocca, il capitano Alexandre, uno dei comandanti del maquis e così il tempo e i tempi della storia collettiva tornavano a incrociarsi col tempo quotidiano, gli davano senso perché lo facevano appartenere a una comunità di liberi.