Inchiostri 12. Santo Stefano di Soleto

di Antonio Devicienti

Forse è possibile dire che frammenti di tempo letteralmente pietrificatto si rendano visibili mentre si vaga per le strade dei centri storici – ma l’espressione “centro storico” mi appare ben poco elegante e ancor meno pregnante di quello che desidererei che fosse: mi piacerebbe si potesse dire “vortice di tempo” oppure “corridoio di tempo” perché, oltre alla sua connotazione burocratica, “centro storico” mi appare sempre di più quale il tentativo di legittimare la separazione netta tra passato e presente di una città o di un paese e di avallare anche nella lingua quella sciagurata spinta a trasformare il cuore di un’antica comunità in edifici da ristrutturare per farne b&b e wine bar alla moda.

E invece tra abitazioni di epoca relativamente più recente e orti-giardino nascosti dietro i muri di pietra leccese ecco, per esempio, Santo Stefano a Soleto squadernarsi come antica pietra e, all’interno, in forma di affresco, presenza cioè del tempo greco-bizantino in Terra d’Otranto.

Leggo Giorgio Agamben: «Nel vortice della nominazione, il segno linguistico, girando e sprofondando in se stesso, s’intensifica ed esaspera fino all’estremo, per poi lasciarsi risucchiare nel punto di pressione infinita in cui scompare come segno per riapparire come puro nome. E il poeta è colui che s’immerge in questo vortice, in cui tutto ridiventa per lui nome. Egli deve riprendere una a una le parole significanti dal flusso del discorso e gettarle nel gorgo, per ritrovarle nel volgare illustre del poema come nomi»[1] – mi provo ad applicare a Santo Stefano di Soleto quanto il filosofo scrive della parola in poesia ed ecco che quel “segno” romanico-bizantino mi appare proprio come un vortice d’eccezionale energia e il nostro occhio che guarda s’immerge dentro quel vortice, rendendo sempre di nuovo presente il tempo passato che Santo Stefano è, percorrendo quel corridoio temporale, tornando ogni volta a raccogliere, nel volgare illustre delle facciate delle abitazioni e delle altre costruzioni, dei muri degli orti invisibili, del lastricato della strada, la presenza luminosa di Santo Stefano nella quale è stata risucchiata (e quindi esaltata nel suo significato) tutta la lunga storia quotidiana della comunità che volle l’edificio religioso e che l’ha custodito nei secoli.


[1] Giorgio Agamben, Vortici in Il fuoco e il racconto (nottetempo, Roma 2014, p. 66)

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