La memoria e il racconto al tempo dei social

Quello che non si può negare è che questo tempo abbia trasformato tutti i concetti e le forme di rappresentazione del passato, le configurazione e le coscienze della memoria, la sua struttura, la sostanza, la funzione, il senso e il sentimento, tutte le espressioni, le condizioni, i metodi di elaborazione e di costruzione del racconto.

Ma forse, soprattutto, è mutato il significato di incontro  che per secoli e secoli è stata la condizione strutturale del racconto: la consegna di un’esperienza che qualcuno fa ad un altro, con qualsiasi forma, con qualsiasi linguaggio, ma in una relazione che mette insieme la fisicità di chi racconta e di chi ascolta.

Dopo la scomparsa delle grandi narrazioni, si è verificata la scomparsa anche delle piccole narrazioni: di quelle quotidiane, essenziali, per frammenti.  Aveva già visto e compreso tutto Walter Benjamin, già a metà degli anni Cinquanta, in quello straordinario saggio sul narratore contenuto in quello straordinario libro che è “Angelus Novus”. Diceva che l’arte del narrare si avvia al tramonto. Diceva che capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare. E’ come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: quella di scambiare esperienze.

Però non è vero che memoria e racconto siano scomparsi. E’ vero che si presentano con una fisionomia completamente diversa. Si presentano con la fisionomia che la tecnologia disegna. Una fisionomia sempre diversa, perché sempre diversi sono gli strumenti e  le forme che la tecnologia inventa. Strumenti sempre più rapidi. Forme sempre più sintetizzate, essenzializzate fino all’estremo. Frammentarie, discontinue, disarticolate. Spesso prive di sequenze logiche, cronologiche. Disorientanti.  Perché non si può rintracciare il punto da cui cominciano, non si è in grado di riconoscere le direzioni che hanno seguito, non si possono ripercorrere le strade che hanno percorso. Sono forme che spesso confinano il senso dell’incontro in situazioni residuali.  

E’ avvenuta una mutazione antropologica che non siamo in grado di giudicare. Potremmo dire che per certi aspetti è normale, per altri un po’ meno. Non sappiamo dire. Forse possiamo solo tentare di ragionare.

Memoria e racconto appartengono al tempo. Sono parte essenziale del tempo. Al tempo si conformano. Lo rappresentano.

Ci sono stati tempi in cui si raccontava con i segni incisi sulle pareti delle grotte.

Poi ne sono venuti altri in cui si raccontava soltanto con la voce. Poi altri ancora che alla voce hanno aggiunto la scrittura.

Poi sono venuti i tempi che adesso attraversiamo. Non sono migliori di altri, non sono peggiori. Le espressioni della cultura pretendono definizioni diverse da migliore e peggiore. Il modo in cui raccontiamo e diamo forma alla memoria costituisce la traduzione fedele della nostra esperienza di vivere il tempo. 

Però non è vero che non si racconta. E’ impossibile non raccontare. A qualsiasi età, in qualsiasi condizione.

I social sono un oceano senza sponde di racconti, per esempio. Però non producono incontro. Forse possono anche determinare confronto. Ma non producono incontro. Il racconto nei social accade nella lontananza, nell’isolamento. Per potersi caricare di un senso profondo, il racconto ha bisogno di prossimità, di una relazione concreta  e di una sentimentale reciprocità. Di autenticità. Anche di intimità. Di calore. Il racconto ha bisogno della vita vera anche se a volte si traveste da finzione.

In “Salto mortale” di Luigi Malerba c’è un personaggio che dice così: “ Perché non mi racconti la tua vita, se ce l’hai? Ce l’hai una vita da raccontare? Oppure non hai niente?”

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 9 ottobre 2022]

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