Ecco allora Comi affermare che «la perizia letteraria – altrimenti detta mestiere […] non risponde più manifestamente alle esigenze dello stato poetico tipo» (NSP, p. 27). L’arte, sosterrà in un altro scritto del 1927, non deve essere confusa col «mestiere»[5], e «quello che è patibile di decadenza e di morte», non è certo la poesia, ma proprio «il mestiere del verseggiare» (Commemorazione, p. 4). Non esiste quindi un problema di tecnica in astratto, empirica, formale perché, secondo Onofri (e lo ripeterà Comi nella Commemorazione a p. 4), esiste solo un problema di tecnica interiore, che «genera per filiazione diretta anche l’altra tecnica: quella esteriore o formale» (NR, p.127).
La poesia, al contrario, fu per entrambi un’attività totalizzante, alla quale bisognava riservare una dedizione assoluta, come un «ministro della Parola» (NR, p.112) per dirla con Onofri, o «come una specie d’inviato speciale extra della fiamma sacra dell’unità» (NSP, p.220), per usare una ancora più suggestiva espressione di Comi, rifuggendo volutamente, con profonda convinzione, il facile successo, la gloria, l’applauso del pubblico La poesia, scrive Comi, fu per Onofri (ma questa considerazione vale anche per lui) «attività sovrana, tra le più assorbenti, della sensibilità e dell’intelletto, volta alla ricerca di quella bellezza, di quell’armonia somma che coincide e si accorda con la verità stessa…» (Ricordo, p. 50). Un’attività, continua più avanti, «in una certa misura, sacerdotale, in senso lato e laico quanto si voglia, ma sacerdotale sempre» (Ricordo, p. 50), che doveva implicare cioè il senso del sacro, perché se questo manca al poeta, scrive Comi, «è preferibile e più decoroso per lui e per i suoi fratellini, che faccia il macellaio, il ballerino e il macchiettista» (NSP, p. 220). Ed è impossibile infatti «intendere ed amare la sua poesia [di Onofri] se non si abbia, in una certa misura, il senso, la persuasione del sacro, di Dio…» (Ricordo, p. 51).
Ma qual è allora la concezione della poesia che accomunava Comi a Onofri? Comi definisce lo stato poetico come «una presa di posizione e di possesso incisiva e corale dello spirito umano, o, se si preferisce, una identificazione ininterrotta e impegnativa dei valori immanenti di sé e delle linfe oceaniche del cosmo» (NSP, p. 22). E qui tocchiamo, com’è evidente, il nucleo della poetica di Comi e di Onofri, il loro spiritualismo cosmico, che si ricollega, almeno in parte, alle dottrine antroposofiche di Steiner, il quale vede nell’identificazione dell’uno con il tutto, dello spirito con il mondo il punto di partenza e quello d’arrivo della storia del creato. Si noti, anche qui, la vicinanza delle posizioni a questo riguardo. L’uomo, secondo Onofri, «non può più separare la conoscenza cosmica dalla conoscenza di sé, e viceversa. Si può dire che fra l’elemento cosmico e quello strettamente umano c’è un perenne scambio reciproco di influssi e di attività, che non permettono di conoscere e sperimentare l’uno separatamente dall’altro, e tanto meno l’uno in opposizione con l’altro» (NR, p. 58). L’artista, secondo Onofri, «non può più ignorare che l’essenza della sua arte è la rivelazione spirituale del cosmo in lui uomo» (NR, p. 87). La poesia perciò deve diventare «la rivelatrice e l’attuatrice dell’Unione infinita fra gli uomini e gli spiriti del mondo, fra la terra e il cielo; […] la Stella dell’Unione, la risvegliatrice dell’intera libertà dell’uomo» (NR, p. 113).
Ecco allora il compito immane, gigantesco che viene assegnato all’arte, alla poesia e che va ben al di là delle «miseriole» dei letterati (NR, p. 137), come le chiama Onofri. L’arte deve riuscire a ricondurre il mondo fisico a quello spirituale, redimendolo, in vista di quel ricongiungimento finale col tutto, con l’assoluto, col divino, che sarà la tappa definitiva nella storia dell’umanità.
La poesia può svolgere questo compito tra gli uomini attraverso l’azione della «parola-Verbo», un concetto che è centrale, come s’è detto, nella poetica dei due scrittori. «La nostra silenziosa fraternità – scrive Comi – si affermava […] in un piano extra-letterario – e, dirò meglio, attraverso la potenza di funzione mistica che noi riconoscevamo alla Semenza della Parola » (Commemorazione, p. 3).E, a distanza di oltre trent’anni, non farà che ribadire questa sua convinzione: «Dirò – scrive infatti – che eravamo entrambi persuasi […] della importanza e della trascendenza della Parola-Verbo, della Parola-Rivelazione e della sua funzione mistica e palingenetica, suscettibile di essere sviluppata e potenziata nel linguaggio poetico» (Ricordo, p. 48).

Sia Onofri che Comi avevano fiducia dunque nel valore magico della Parola che, all’inizio del Vangelo di Giovanni, si dice essere il principio di ogni cosa. In essa, com’è noto, il Cristianesimo identifica il figlio di Dio fatto uomo, il Cristo, a cui anche l’antroposofia steineriana, che è poi una forma di cristianesimo esoterico, attribuisce un ruolo decisivo come asse e motore dell’evoluzione cosmica. La parola-Verbo permette al poeta di continuare in un certo senso l’opera del Cristo, immettendo negli uomini la «semenza», come la chiama Comi, la quale, proprio come il seme nascosto nella terra, darà i suoi frutti, perché li porterà a scoprire il divino che c’è dentro di loro, e avrà quindi, una funzione palingenetica, di redenzione e di salvezza.
Per questo la parola è definita «magica», con un aggettivo che ritorna assai frequentemente negli scritti dei due poeti. «Il parlare – scrive Onofri – è per il poeta (quando è poeta) come un arrivare a toccare con la magia delle parole l’essenza dell’universo invisibile, un comunicarsi col mistero divino, un partecipare, per amore parlante, all’atto originario del Verbo creatore» (NR, p.109). E ancora: «Ogni parola, abbiamo detto, è come una formula magica, che evoca lo spirito, del quale essa non è che il corpo» (NR, p.107). E Comi: «La parola è magica anche perché per suo mezzo si attua la certezza della comunione con l’assoluto. Più si ha fede nella funzione magica della parola, meglio si risolve il dramma dato, proposto e congenito all’uomo» (NSP, p.185).
La parola è anche comunione, perché permette agli uomini di entrare in contatto col trascendente, prendendo coscienza di questa verità, e quindi col tutto. «E aggiungo – scrive Onofri – che appunto questa è la vera natura della “Parola”, di essere il tramite, lo strumento, l’ostia di comunione fra esseri ormai separati e distinti, fra individualità interiori diverse, che mediante la parola umana s’immedesimano l’una nell’altra» (NR, p.100).
Da qui, ancora, l’equivalenza che si stabilisce tra poesia e conoscenza. «Soltanto nell’atto del creare – sostiene Onofri – l’uomo può raggiungere la sua auto-coscienza e la sua progressiva immedesimazione con la divinità. Appunto questa è, per l’uomo, la forma suprema del conoscere» (NR, p. 61). E Comi: «Poetare e conoscere diventano dunque due luminosi e illuminativi sinonimi» (PeC, p. 14). Perciò la poesia, per lui, è «la coscienza del divino che è in me» (NSP, p.123). E Onofri, a sua volta, aveva parlato di «riconoscimento di quel divino-in-noi» (NR, p. 90).
Mi sembrano estremamente significativi questi brani, ricchi di coincidenze di concetti e di termini, i quali dimostrano anche come la riflessione di Onofri e quella di Comi siano procedute parallelamente, anche se Onofri è riuscito a organizzare in maniera più sistematica le sue idee in quel «piccolo epos teoretico», che è il Nuovo rinascimento come arte dell’Io, del 1925, mentre gli scritti di poetica di Comi, che iniziano, è sempre bene ricordare le date, dal 1920 con Fogli di un diario lirico, poi compresi in Necessità dello stato poetico, del1934, hanno un carattere più frammentario, diaristico, a volte aforismatico.
È probabile però che la teoria onofriana della «parola-Verbo», a cui è dedicato un intenso capitolo nel Nuovo rinascimento, abbia contribuito, insieme con altri stimoli e letture, a far superare a Comi quella concezione panica e immanentistica che caratterizza la sua produzione poetica, almeno fino a Poesia del 1928, e a portarlo gradualmente verso l’integrale accettazione del Credo cristiano, che come scrive lui stesso, costituisce il punto «di confluenza della nostra intelligenza e della nostra poesia» (Ricordo, p. 54). Sorprendenti anche qui sono i riscontri diretti negli scritti dei due poeti. Proprio nel capitolo dedicato alla Parola nel Nuovo rinascimento, Onofri scrive, a un certo punto:
Per questo il poeta non può restare più a lungo in un sentimento soltanto diffuso di pienezza panica, e sognare l’organismo del mondo in parvenze arbitrarie e casuali, che sarebbero la sua fantasia personale. Il pronunciatore, colui che articola il verbo di vita, deve giungere a conoscenza delle originarie intenzioni che sospingono ogni gruppo di creature, ogni tribù di fiori, ogni famiglia di spiriti verso il loro destino di redenzione, già manifestato nelle sublimi forme di tutte le cose (NR, p. 115).
Questo brano dovette sicuramente colpire Comi, che sembrava essere chiamato direttamente in causa dall’amico e che a sua volta ritornò sul concetto di panicità in due occasioni, a distanza di pochi anni l’una dall’altra, ma con una sostanziale differenza. Al 1932 risale la seguente riflessione:
Io, in un primo tempo, quando l’eccessiva gioventù non mi permetteva e non mi lasciava il tempo di approfondire certi miracoli della natura e del pensiero, mi beavo e mi annullavo davanti allo spettacolo del mondo senza preoccuparmi di andare oltre. Oggi sento il bisogno fisiologico, oltre che spirituale, di collegare e saldare l’impeto della mia sempre più giovane meraviglia al gigantesco palpito di qualche magica armonia prestabilita. Non mi accontento più dell’estasi o di una vaga coscienza panico-sessuale, ma devo e voglio riprendere contatto, quotidianamente e bene o male, con l’ordine magico e misterioso che governa il cosmo (NSP, p. 102),
dove, come si può vedere, siamo già nell’ambito di una religiosità, ma ancora di tipo esoterico, antroposofico («l’ordine magico e misterioso che governa il cosmo »). Ben diverso è il brano di Aristocrazia del Cattolicesimo, del 1937, dove ormai questa religiosità è sfociata nella conquista definitiva della fede cattolica:
Partito come molti da un quasi orgiastico culto dell’Io, posseduto e nudrito da un rutilante tenebrore di stati d’animo panteistici e panici, sono sboccato, – non senza gaudiose e perigliose soste negli arcipelaghi delle più avvincenti eresie – nel riconoscimento totalitario di Dio [6].
Questo progressivo passaggio, da una concezione immanentistica a una trascendente, ma di tipo ancora “magico” e antroposofico, e infine a una integrale visione cristiana, si può verificare anche direttamente nel corpo vivo della poesia, attraverso l’esame di alcune liriche che sviluppano il motivo della «parola-Verbo», la quale subisce una sorta di slittamento semantico e solo alla fine coincide col concetto giovanneo. In Smeraldi (1925), ad esempio, si trova la seguente lirica:
Il verbo di cui sono schiavo
s’accoppia carnale all’oggetto
che geme — combusto — nel cavo
del mio più maturo concetto:
rutila d’essere, e posa
la sua paziente semenza
dovunque io ricrei l’essenza:
su luce di pietra o di rosa — (p. 28),
dove, mi sembra, emerge il potere demiurgico che ha il poeta di ricreare l’essenza di un qualsiasi oggetto del creato attraverso la parola. Ma si tratta, ancora, più di un potere di evocazione alla maniera simbolista, mallarmeana, che di redenzione e di salvezza, come lo intendeva Onofri, e come invece sarà in seguito anche per Comi.
In due composizioni di Poesia (1929) si ritrova invece il senso quasi “magico” che è attribuito al «verbo» e alla «parola» dall’antroposofia steineriana. In una, Comi scrive così: «Il vocabolo è veramente sangue, e delle sue magiche lettere si nudre e arde il corpo di chiunque» (p. 194), e nell’altra, immediatamente seguente:
Ecco il tuo fiato, nella trasparenza
della voce nativa: — la parola: —
tronco, fogliame, polline e scienza
d’un blocco di marmorei silenzi,
in cui matura si dilata e cola
l’universale spirito dei sensi (p. 194).
In queste due poesie infatti la parola opera ancora “magicamente”, come il sangue che circola nel corpo dell’uomo e dell’universo intero.
Soltanto in Cantico dell’argilla e del sangue (1933) il verbo diventa veramente Verbo divino. Si veda, per l’appunto, la lirica intitolata Il Verbo:
Il tuo linguaggio profondo
è come un’ala distesa
un’ala di luce rappresa
dentro l’argilla del mondo;
e in ogni consumo di cose
rutila e s’ingigantisce
un fuoco che non finisce
per cui rinascono rose,
pensieri paesi e persone
uniti in un cantico ebbro
ch’è oscura comunione
coi calici del tuo verbo (p. 59),
dove c’è quasi il senso della permanenza del fuoco originario che resta negli individui e negli oggetti del creato e che li unisce per sempre alla divinità attraverso il Verbo. Ancora più esplicita e significativa è La Grazia , da dove, secondo Fallacara, comincia «la poesia veramente religiosa»[7] di Comi:
Se la Tua grazia m’inonda e mi colma
il respiro mi manca; ed è allora
ch’io sento il verbo e dimentico l’ombra
della mia cupa e orgogliosa parola (p. 60).
Qui è proprio attraverso la Grazia divina che il poeta sente il Verbo, dimenticando la sua «cupa e orgogliosa parola», quella di origine simbolista, mallarmeana, che dava all’uomo l’illusione di essere simile a dio, perché gli attribuiva il potere demiurgico di evocare e quindi di dar vita agli oggetti. Le «sillabe del sangue» diventano allora «preghiere», perché preghiera e poesia «sono una cosa sola» per Comi come per Onofri. «La sensualità panica – ha scritto a proposito di questa lirica Bocelli – si è concentrata in un sentimento religioso, cristiano della vita (di un cristianesimo però con molte tracce ancora di immanentismo); e quell’immaginismo è divenuto tutto una cosa con esso»[8].
Ma, per finire, vorrei accennare a un altro punto di contatto tra Comi e Onofri, riguardante stavolta la lingua poetica. Ebbene, sia Contini che Mengaldo hanno notato nell’Onofri di Terrestrità del sole una «tensione espressionistica»[9] che lo porta a forzare la lingua normale, spingendolo, fra l’altro, alla creazione di termini nuovi o a formare gruppi di parole, tanto che Contini, nel suo celebre saggio sull’Espressionismo letterario, parla di un «trans-italiano»[10] di Onofri. Tra gli esempi di conglomerati che essi portano cito: «turchinìo-vertigine del sole»; «L’aria-velocità del tuo sorriso»; «l’intreccio-a-svolìo delle sue vesti»; «balenano-mio-corpi»; «pensarmi-diverso-da-me», che costituisce una catena come «del suo quaggiù-purificarsi-in Croce»[11].
Queste innovazioni linguistiche, che però, a ben guardare, si trovano già nella raccolta di prose liriche, Le trombe d’argento del 1924, erano state teorizzate dallo stesso Onofri :
Inoltre, dal punto di vista lessicale, l’artista non può peritarsi, in certi casi, di ricorrere a gruppi composti di più parole, a vere e proprie famigliole di parole che tendano ad esprimere il senso di una parola nuova che non c’è nel linguaggio; ovvero, talora, egli potrà addirittura foggiare ex novo quella parola, purché, nel tessuto d’insieme in cui essa viene a trovarsi, riceva luce e potenza espressiva dalla frase che maternamente la regge e la porta, così come una nuova creatura testè giunta al mondo è sorretta dalla madre che l’ha generata (NR, p. 145).
Ebbene, fenomeni simili si ritrovano pure in Comi, ma la cosa più sorprendente è che stavolta è Comi a precedere Onofri, perché essi compaiono già nelle raccolte dei primi anni Venti, Lampadario (1920) e I rosai di qui (1921), quindi anche prima di Le trombe d’argento (1924), oltre che in Smeraldi (1925), Boschività sotterra (1927) e Poesia (1929). Dò soltanto qualche esempio. In Lampadario e in Rosai di qui troviamo, ad esempio, conglomerati semplici, isogrammaticali, come «sonni-universi» (p. 15), «oro-sangue» (p. 16), «porpora-cantico» (p.16), «raso-smeraldo» (p.17), «parole-essenze» (p.26), «polpa-velluto» (p.157), ma anche conglomerati complessi, costituiti cioè da elementi appartenenti a diverse categorie sintattiche: «di petali-in-neve» (p.17), «tutto-gaudioso» (p. 24), «dal cielo d’in-fondo» (p.151), vere e proprie catene questi ultimi, come in Smeraldi (1925), dove troviamo «in archi-viola-di-suoni» (p.17), «In selve-d’essere-germi» (p.29), oltre che «giovane-vecchio» (p.162), «eguale-eguale» (p.163), «succo-cristallo» (p.165), «ardore-indiviso» (p.165), «grido-preghiera» (p. 165), «rose-granate» (p.165). In Boschività sotterra (1927): «cavo-fiato» (p.173), «vulve-viola» (p. 175), «un rutilare-aureo» (p.175), «suoni-smeraldi» (p.176), «volere-luce». Un caso a parte è costituito da una poesia di Smeraldi (1925), nella quale sono tutte le parole di un’intera strofe a essere legata con il trattino, in una sorta di lunga, ininterrotta catena:
andirivieni-di-aromi
di-cui-conosci-la-culla:
tuffa-nel-soffice-nulla
il-lieve-velluto-dei-nomi
dei-siti-ingemmati-di-suoni
di-cui-la-curva-ti-culla. – (p. 163).
Ma anche altri fenomeni stilistici tipici di Onofri, che devono essere riportati sempre alla sua visione consustanziale, unitaria dell’universo, si ritrovano in Comi. E’ il caso dei costrutti infinitivali, notati da Mengaldo sempre in Terrestrità del sole, del tipo «uscendo in lampi di volerti mondo», «questo equilibrio di prestarti ascolto»[12], o anche «l’oceanica angoscia d’esser mondi»[13] . Ebbene in Comi abbiamo, ad esempio, in Poesia (1929): «Questa polpa di non sapere è il corpo / della vita…» (p. 26); e in Cantico del tempo e del seme (1930): «Il vivo evento d’essere tessuti / di palpiti impalpabili di tempo» (p. 205). E così ancora si ritrovano, in Comi, esempi di verbi intransitivi usati in modo transitivo o assoluto, come in Onofri «pullulare luci»[14]. Ad esempio: «il tuo cosmico agire è “giacere” / tutto stelo di diamante» (Boschività sotterra, p. 172), «Io mi sento tutto giacere / radice di polpe solari» (Boschività sotterra, p. 173), «Erompere la primavera / nativa…» (Poesia 1929, p. 183). E ancora vorrei citare la presenza di un termine composto come «omnicolore» (Smeraldi, p. 163), che richiama da vicino «onnimondiale» e «onniceleste» di Onofri, tratti sempre da Terrestrità del sole, citati da Mengaldo[15].
Anche queste indubbie affinità stilistiche insomma stanno a dimostrare che il rapporto tra i due poeti non è stato, come si è pensato per molto tempo, unilaterale, non è andato cioè in un’unica direzione, da Onofri a Comi, ma si è sviluppato in maniera parallela con scambi e apporti reciproci, in una coinvenzione, come ha ben visto Macrì, di una poetica e di un linguaggio, che ha lasciato una traccia profonda, anche se ancora forse non sufficientemente compresa e apprezzata, nella poesia italiana del Novecento.
[In A.L. Giannone, Tra
Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella,
2013]
[1] A. Banfi, L’idea dell’Arte nel «Nuovo Rinascimento», in Arturo Onofri, cit. p. 218; poi, col titolo Onofri, poeta metafisico, in Id., Scritti letterari, a cura di C. Cordié, Roma, Editori Riuniti, 1970, pp. 239-244.
[2] Ibid.
[3] Tutti i corsivi nelle citazioni di Onofri e di Comi sono degli autori.
[4] Ora in Appendice filologica a G. Comi, Opera poetica, a cura di D. Valli, Ravenna, Longo, 1977, p. 429. Da questo volume sono tratte tutte le citazioni delle poesie di Comi.
[5] G. Comi, L’arte come disciplina di sintesi, in «L’Idealismo Realistico», a. V, fasc. 6, 1° giugno 1928, p. 24.
[6] G. Comi, Aristocrazia del Cattolicesimo, Parma, Guanda, 1937, p. 28.
[7] L. Fallacara, La poesia di Girolamo Comi, in «Città Nuova», a. V, n. 3, 10 febbraio 1961, p. 32.
[8] A. Bocelli, Itinerario di una poesia, cit., p. 267.
[9] P. V. Mengaldo, Arturo Onofri, nell’antologia da lui curata, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978, p. 151.
[10] G. Contini, Espressionismo letterario, in Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, p. 93.
[11] Questi e altri esempi si trovano in P. V. Mengaldo, Arturo Onofri, cit., p. 151; G. Contini, Espressionismo letterario, cit. p. 93; P. V. Mengaldo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 217.
[12] Cfr. P. V. Mengaldo, Arturo Onofri, cit., p. 151.
[13] A. Onofri, Terrestrità del sole, Firenze, Vallecchi, 1927, p. 18.
[14] L’esempio è in P. V. Mengaldo, Il Novecento, cit., p. 215.
[15] In Arturo Onofri, cit. p. 151.