di Antonio Errico
Sera d’agosto torrida. Scirocco tramortente. Un ristorante all’ora di cena. Per prendere posto si fa la fila ordinata e silente di un‘ora, poco più, poco meno. Ad un tavolo una famiglia: madre padre figlio adolescente. La donna con il suo smartphone tra le mani. L’uomo con il suo smartphone tra le mani. Così anche il ragazzo. Ognuno con il suo smartphone tra le mani. Per tutto il tempo. Per un’ora, un’ora e mezza. Mangiano la pizza continuando a scrutare ciascuno il proprio smartphone, senza dire nemmeno una parola. Il mondo virtuale e impalpabile sbaraglia quello reale, concreto. Non c’è da rattristarsi, non c’è da gioire. Le cose vanno così. Ormai forse ineluttabilmente.
Mi ritorna la scena quando poche ore prima di scrivere questo pezzo incontro un libro di Derrick De Kerckhove e Dionisio Ciccarese, che si intitola “Siamo uomini o digitali?”. Ho cominciato a leggerlo, non ho fatto in tempo a finirlo. Intuisco che si parli di iperconnessione, iperglobalizzazione, ipercomunicazione, di un coacervo di informazione che non si riesce a mettere insieme, che non si sa o non è possibile selezionare, che non si sa o non si può organizzare in un tessuto organico, coeso, coerente. Dico approssimativamente adesso. Ma già soltanto il titolo richiama molte questioni, molti interrogativi, per i quali forse è ormai del tutto inutile tentare di darsi una risposta. Perché abbiamo quasi digitalizzato l’universo. Per quello che resta ci serve soltanto un po’ di tempo. Però gli interrogativi rimangono, insistenti.
Un altro libro. Quello di Manfred Spitzer che si intitola “Demenza digitale”. Secondo lo psicologo tedesco l’uso continuo di computer o smartphone costituisce un ostacolo per lo sviluppo o il mantenimento delle capacità di memoria, di autocontrollo, di concentrazione, di relazione e di socialità, in quanto si tratta di facoltà che possono consolidarsi e svilupparsi soltanto attraverso l’interazione con il mondo reale.