di Antonio Devicienti
Sono stanco del Salento tutto colori, sule mare e ientu, buono per turisti che non capiscono quello che vedono, cui non interessa quello che siamo né quello che siamo stati, non amo il Salento delle notti della taranta né quello rigurgitante di set cinematografici per film perfettamente inseriti nelle tendenze della moda (perché da qualche anno il Salento “è di moda” e i suoi paesaggi sfondo perfetto per neosposi disposti a pagare profumatamente le foto per il loro album).
Cerco la lontananza («La lontananza è il lontano osservato nel suo movimento verso la rappresentazione, nel suo divenire figura. Il lontano osservato nel tempo e nello spazio del suo accamparsi», Antonio Prete, Trattato della lontananza,pagina 9), cerco l’eleganza discreta e commovente delle case dei contadini e dei pescatori costruite nel cuore antico dei paesi, un mare che ancora ci unisca a Bisanzio, che attrae l’eletta solitudine e la meditazione. Non dimentico la depressione culturale né quella sociale che tengono in ostaggio il mio Salento, non rimuovo la presenza attiva della violenza e del ricatto, ma quest’inchiostro cerca luoghi e immagini che ancora sappiano condurmi lungo itinerari di silenzio e di pensiero.
Un gatto nero (aristocratico equilibrista) attraversa lentissimo il bianco della calce che, nelle virate della luce e nell’inarcatura del passo dell’animale, rivela distanze e angoli delle pareti e aperture del cielo.
Sembra davvero una siluetta tutta inchiostrata quel gatto esploratore, una virgola nella luce meridiana di Castro, un raddoppio di quell’arco inatteso tra i profili squadrati di cornicioni e pareti.
Esiste una salentinità della pietra arenaria, quel suo essere stata tagliata in blocchi saldati tra loro dalla malta, quel suo dar visibilità a pareti nelle quali si riconosce la tessitura dei blocchi tufacei e, anche, quel suo lasciarsi ricoprire dalla calce che diventa un quadrante su cui il tempo abbandona le proprie impronte – e, insieme, c’è quella sua capacità di riflettere la luce abbagliando lo sguardo.
Eppure la calligrafia di questa foto sa tracciare le perfette geometrie degli edifici: è il gatto che porta le linee sinuose del suo corpo contro quei tagli di angoli retti, non a caso percorrendo il moto curvilineo dell’arco; anche la griglia dell’inferriata che s’intravede sotto l’arco è una sorta di rimodulazione delle linee rette e del loro incrociarsi, dei reticoli delle malte tra i tufi, dell’innalzarsi delle due antenne (o pali per il bucato?) e della canna fumaria in alto in cima alle terrazze.
Anche la scala di legno sull’estrema destra (appena un accenno – o è un palo un po’ storto?) fa dirigere linee rette verso l’alto, mentre soltanto l’arco e il gatto indicano altre direzioni e un altro modo dell’andare; il pelo nero-velluto (ma anch’esso, come il bianco dei muri, ricco di tonalità e marezzature) attira lo sguardo che, adeguandosi alle orecchie ritte dell’animale, impara a essere attentissimo e concentrato. Lento non per pigrizia, ma per vitale intuizione. Alla lettera: guardingo.
La fotografia in apertura (Gatto nero su un muro di Castro) appartiene alla serie intitolata lemme lemme. Viaggio nel Salento in bianco e nero (2013) di Marcello Moscara che si ringrazia per averne concesso la pubblicazione qui.