All’aumento del prezzo dei prodotti energetici, si aggiunge l’indebolirsi delle catene del valore, l’incertezza sulla continuità delle forniture, l’incremento dei costi della logistica e dei trasporti, la vicenda del grano e la siccità. L’accelerazione dell’inflazione è presente anche negli Stati Uniti, con una differenza importante, però, rispetto all’Europa. Mentre da noi l’aumento dei prezzi riflette essenzialmente l’aumento dei costi dei prodotti importati, negli USA è l’effetto di incrementi di domanda aggregata, anche come conseguenza di aumenti della spesa pubblica: si tratta di un’economia surriscaldata, mentre quella europea è prossima alla recessione, con domanda aggregata stagnante. Agli incrementi di domanda aggregata la FED ha risposto alzando i tassi di interesse di più e più rapidamente di quanto fatto dalla Banca Centrale Europea. Ciò ha determinato l’apprezzamento del dollaro. Peraltro, l’aumento dei tassi di interesse BCE riduce il vantaggio derivante dal contenimento della dinamica del debito in rapporto al Pil, dal momento che, con tassi di interesse alti e in aumento, diventa meno conveniente per uno Stato indebitarsi sui mercati finanziari. La crescita di molti prezzi è anche imputabile all’aumento dei margini di profitto, in particolare delle grandi imprese, e all’incremento delle rendite finanziarie. Il Global Dividend Index riporta un aumento del’11.3% di cedole distribuite agli azionisti da parte di imprese quotate in borsa e rileva che l’aumento è stato del 28.7% in Europa. In Italia, ENI è fra i percettori dei più alti dividendi e rendite finanziarie, connesse a un aumento esponenziale dei prezzi. La gran parte degli aumenti di prezzo si è avuta nel periodo successivo al febbraio 2022. Di recente, l’euro si è svalutato, tornando alla parità con il dollaro USA. È vero che la svalutazione dell’euro può consentire un aumento delle esportazioni, ma vi è anche da attendersi – per effetto proprio del deprezzamento – un aumento dell’inflazione importata. Una misura di contrasto all’inflazione che avrebbe il vantaggio di essere realizzabile in tempi brevissimi e di liberare risorse per l’aiuto alle imprese e alle famiglie è questa: rivedere l’impegno di spesa per la difesa voluto dal Governo Draghi. Si tratta del cosiddetto Decreto Ucraina del marzo 2022 che ha disposto un incremento al 2% del Pil delle spese per la difesa entro il 2028 (era pari a 1,54% del Pil nel 2021). È una cifra altissima, che, senza revisione dei nostri accordi NATO, potrebbe essere utilmente dilazionata in più esercizi finanziari, dando spazio a interventi di carattere sociale più urgenti per contrastare l’impoverimento di gran parte delle famiglie italiane, soprattutto quelle con redditi medio-bassi, e la possibile chiusura di molte imprese, soprattutto quelle di piccole dimensioni localizzate prevalentemente nel Mezzogiorno. Si tratta, in tal senso, di non peggiorare il quadro, obbligandoci in modo irragionevole a una severa contrazione degli interventi nel sociale, peraltro da realizzare in un brevissimo intervallo di tempo. Sarebbe un importo elevato che peraltro ci consentirebbe, per molti degli interventi di politica economica in discussione, di evitare di finanziarli in deficit (cioè con scostamenti di bilancio). Il finanziamento in deficit, infatti, con tassi di interessi alti e crescenti, comporterebbe un aumento significativo dell’onere degli interessi sul debito pubblico. In più, le risorse liberate e spese per fini sociali attiverebbero da subito effetti moltiplicativi, accrescendo il Pil e rendendo possibile un gettito fiscale altrimenti indisponibile. Si potrebbe obiettare che anche la spesa militare tiene alti i redditi. Ciò è solo parzialmente vero. Infatti, la spesa sociale ha un moltiplicatore più alto, in considerazione della più elevata propensione al consumo delle famiglie con basso reddito. C’è poi un fenomeno di irreversibilità: una volta generatisi fallimenti di imprese, indietro non si torna e il danno prodotto è permanente. Questa scelta non metterebbe a rischio la nostra adesione all’alleanza atlantica. Non si tratterebbe del venir meno a un impegno: l’accordo sul riarmo è stato stipulato solo in via informale nel 2014 (recependo un intento esplicitato nel 2006) ed è stato peraltro mantenuto solo da pochi Paesi dell’alleanza fino agli inizi del 2022: Grecia, Stati Uniti, Polonia, Regno Unito, Croazia, Estonia, Lettonia, Lituania. Si tratterebbe peraltro di un’opzione già praticata, poiché il Parlamento italiano, ad aprile scorso, ha già rinviato al 2028, partendo dal 2024 (anno originariamente proposto dal Governo), l’ultimo anno utile per la scadenza dell’aumento delle spese per la Difesa. Si tenga conto, infine, che il “Decreto Ucraina” risale al mese immediatamente successivo all’invasione russa, periodo nel quale gli effetti inflazionistici della guerra non erano così intensi, pervasivi e allarmanti.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 10 settembre 2022]