Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) XLV

Il finito è una realtà a partire dalla quale sperimentiamo non l’infinito, ma la sua possibilità. La realtà, difatti, contiene l’infinito, nel senso che lo delimita, impedendoci di sprofondare nel nulla.

La nostra percezione degli oggetti che delimitano e contengono l’infinito spostano sempre più in là la linea di confine tra noi e il nulla, consentendoci di pensare la possibilità dell’esistenza di un infinito. Congetturiamo, ma non siamo in grado di provare l’esistenza dell’infinito, perché non esperiamo nient’altro che una “piccola porzione” dello spazio-tempo.

Pertanto, aggiunge Wittgenstein “Ha un senso dire che in una direzione ci possono essere infinite cose, ma non ne ha nessuno dire che ce ne sono infinite.” (p.  600).

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Intelligenza artificiale. Se l’Intelligenza Artificiale sia o no vera intelligenza e quale grado di autonomia rispetto all’uomo possa avere e se un giorno possa dominare l’uomo stesso: sono queste le questioni che animano il dibattito sulla questione, spesso accompagnato da grandi paure. Leggi quanto dice Luca Fabbris, Il programma, la rete, il circolo: un approccio Io-fi all’Autonomia artificiale, in “Aut Aut” n. 392 – dicembre 2021, p. 76: “L’Intelligenza Artificiale non è mai esistita, sono esistite solamente buone imitazioni di descrizioni di comportamenti considerati da noi espressione di intelligenza. (…) solo una macchina che si rifiuti di eseguire un ordine potrà essere considerata intelligente: perché in quel momento vuole altro, o semplicemente perché preferisce di no”.

Dunque esiste solo l’intelligenza e l’intelligenza artificiale è una contraddizione in termini (contradictio in adiecto)

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La nostra infelicità, secondo Eugène Ionesco. “Osservate la gente correre indaffarata, nelle strade. Non guardano né a destra, né a sinistra, preoccupati, con gli occhi fissi a terra, come cani. Tirano dritto, ma sempre senza guardare davanti a sé, poiché coprono un percorso, già risaputo, macchinalmente. In tutte le grandi città del mondo le cose stanno così. L’uomo moderno, universale, è l’uomo indaffarato, che non ha tempo, che è prigioniero della necessità, che non comprende come una cosa possa non essere utile; che non comprende neppure come, in realtà, proprio l’utile possa essere un peso inutile, opprimente. Se non si comprende l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte; e un paese dove non si comprende l’arte è un paese di schiavi e di robots, un paese di persone infelici, di persone che non ridono né sorridono, un paese senza spirito; dove non c’è umorismo, non c’è il riso, c’è la collera e l’odio.

Poiché queste persone indaffarate, ansiose, tese verso un fine che non è un fine umano o che è solo un miraggio, improvvisamente possono, al suono di chissà quali trombe, al richiamo di qualunque folle o demone, lasciarsi trascinare da un fanatismo delirante, da una qualsiasi violenta passione collettiva, da una nevrosi popolare. Le più diverse rinocerontiti, di destra e di sinistra, le più svariate, costituiscono minacce che pesano su un’umanità che non ha il tempo di riflettere, di ritornare in sé o in senno.”

Eugène Ionesco, Conferenza del febbraio 1961, citato in Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile I 24, Bompiani, Milano 2013 (Prima edizione digitale).

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Emile Cioran, secondo Claudio Magris. Nel suo viaggio lungo il Danubio, Claudio Magris fa tappa a Bucarest e visita il quartiere popolare di Lipscani, “dove la storia e le stirpi sono in svendita”; qui trova l’humus nel quale è nato Emil Cioran: “Cioran, con la sua disillusione totale ed esibita, è nato da queste profondità vegetali dell’universo romeno…” (Danubio, in Opere I, Mondadori, Milano 2016 (II edizione), p. 1292). È l’occasione per un giudizio severo sullo scrittore romeno: “Parassita del disagio, egli si rifugia nella negazione assoluta, sguazzando comodamente fra le contraddizioni dell’esistenza e della cultura e ostentandone il delirio, anziché cercare di capire la ben più ardua giostra di bene e di male, di vero e di falso che ogni giorno reca con sé.”

Capire cos’è il bene e cos’è il male, dove sta il vero e dove il falso, questo avrebbe dovuto fare Cioran invece di scrivere da “parassita del disagio,” ovvero come colui che avvalora la propria scrittura dei mali propri ed altrui; peccato di omissione funzionale alla ricerca di un “comodo rifugio nella negazione assoluta”, e finalizzato anche ad una rendita di posizione tra le negatività del mondo; Cioran comodo poltrone che, dalla sua “mansarda parigina”,  prova gusto ad ostentare il delirio nel quale vivono gli uomini e che pervade la cultura contemporanea. Aggiunge Magris: “… la negazione assoluta … è un comodo espediente per risolvere ogni problema una volta per tutte e mettersi al riparo da ogni dubbio.” (op. cit. p. 1293).

Un Cioran – Magris evita accuratamente di riportare il nome Emil – neghittoso e furbo, capace di mettere a tacere la coscienza con una soluzione facile, “la negazione assoluta”.

Ora, ammesso che sia possibile giudicare l’opera di uno scrittore a partire da quel che essa non è (Cioran non capisce cos’è il bene e cos’è il male, dove sta il vero e dove il falso), a me pare che l’approccio moralistico (bene-male) di Magris sia anche un approccio ideologico (vero-falso). Infatti, non c’è ideologia senza morale.

Nel giudizio di Magris su Cioran, in controluce, leggo il contrasto tra una visione della cultura improntata di moderatismo ed una di radicalità; e mi chiedo se per uno scrittore sia più comodo pensare in modo moderato – basta seguire il corso del fiume dalla sorgente alla foce – oppure in modo radicale; se nel giudizio sia più coraggioso chi si attenga alle griglie bene-male, vero-falso, relegando il resto sotto l’etichetta del delirio, oppure chi guardi in faccia – e denunci –  per tutta la vita “la negazione assoluta” di cui è fatta la storia dell’uomo.

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Pisciare. Alla fine del celebre ballo ne Il Gattopardo di Luchino Visconti, la camera da presa si sofferma per qualche istante sui capienti “pitali” ormai stracolmi posti in una stanza appartata, dove gli ospiti hanno svuotato le loro vesciche. È il segno che la lunga nottata del ballo è finita, il segno corporale che il tempo è trascorso ed è ora di tornare a casa. Ecco di cosa è fatto il tempo, sembra dire Visconti: di vasi pieni d’orina.

Naturalmente, a monte v’è Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Opere, Meridiani Mondadori, Milano 1995, p. 221: “Al di sopra delle loro cravatte in disordine le facce degli uomini erano gialle e rugose, le bocche intrise di saliva amara. Le loro visite a una cameretta trascurata, a livello della loggia dell’orchestra, si facevano più frequenti: in essa era disposta in bell’ordine una ventina di vasti pitali, a quell’ora [alle sei del mattino] quasi tutti colmi, alcuni sciabordanti per terra.”

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