Questa stima è ottenuta considerando ciò che le regioni del Sud avrebbero dovuto ricevere sulla base della popolazione residente. Il Sud non è dunque inondato di spesa pubblica: tutt’altro. Ne riceve sistematicamente meno di quanto ne riceva il Centro-Nord. In più, la vulgata leghista che vuole il Mezzogiorno un luogo di spreco di risorse pubbliche si fonda su un non senso: non si dispone, infatti, di nessun criterio oggettivo o condiviso per definire e quantificare uno spreco. In più, non si capisce perché la propensione allo spreco – comunque la si voglia definire – sarebbe presente nel Mezzogiorno e assente – o meno presente – al Nord. La domanda perché le pratiche clientelari sarebbero tipiche del Mezzogiorno e non anche di altre aree del Paese è destinata a rimanere senza risposta. A riguardo, viene spesso citato il fatto che i fondi comunitari non sono interamente spesi. È un argomento falso: nella realtà dei fatti, quei fondi non vengono spesi perché la pubblica amministrazione al Sud – per effetto dei maggiori tagli operati a danno delle regioni meridionali – è più sottodimensionata, in termini di personale e anche per quanto riguarda il capitale fisso (per esempio, computer), e perché, come nel caso delle “grandi opere”, molto spesso si dispone delle risorse per avviarle, ma non si dispone, al Sud, delle risorse per completarle, per il progressivo venir meno degli stanziamenti a livello centrale. C’è poi un risultato empirico interessante, da tenere in debita considerazione per valutare il progetto leghista. Uno studio della Banca d’Italia rileva che le regioni del Sud traferiscono risorse monetarie al resto del Paese soprattutto per la mobilità sanitaria: la stima è di circa 70.5 miliardi di euro annui. Queste cifre andrebbero poi sommate a quelle derivanti dai trasferimenti monetari che le famiglie del Sud danno al Nord come conseguenza della mobilità studentesca e delle migrazioni di forza-lavoro (in particolare, di quella in possesso di laurea). Inoltre, i risparmi delle famiglie meridionali vanno a finanziare prevalentemente investimenti di altre aree, fra le quali il Nord. Il Sud è sempre meno un mercato di sbocco per le produzioni dell’industria settentrionale, ma resta comunque un importante serbatoio di assorbimento. Ciò spiega il risultato al quale arriva l’indagine della Banca d’Italia: l’aumento di 1 euro del Pil del Sud – per effetto di un incremento dei consumi – produce un incremento della crescita di 40 centesimi del Pil del Centro-Nord. Inoltre, un aumento della spesa dei consumatori meridionali di 100 euro fa crescere la produzione al Centro-Nord di 51,8 euro, ripartiti in 20,2 euro al Nord-Ovest, 14,3 euro al Nord-Est, 17,3 al Centro. Si tratta di un risultato importante, che stabilisce che la crescita economica delle regioni meridionali trascina la crescita economica dell’intero Paese. L’impoverimento del Sud, dunque, contribuisce a rallentare la crescita del Pil del Nord. È poi interessante il risultato per il quale 1 euro di maggiore ricchezza al Nord produce solo 10 centesimi di crescita del Pil italiano. Questa simulazione destituisce in toto di fondamenta la visione leghista dell’effetto locomotiva, effetto per il quale è solo facendo crescere le regioni più sviluppate che si attiva crescita anche per il Sud. Vale semmai il contrario: la crescita economica nel Mezzogiorno è trainante per l’intera economia nazionale. L’attuazione completa del progetto autonomista implica la sottrazione al Parlamento italiano della possibilità di esprimersi su materie rilevantissime (a partire dall’istruzione). Ciò significa minori risorse alle regioni meridionali e, dunque, per l’implicazione che deriva dalla ricerca di Banca d’Italia, minore crescita economica non solo per il Sud, ma per l’intero Paese.
[“Il Sole 24 ORE”, 31 Agosto 2022]