di Antonio Prete
La geografia interiore ha mappe con toponimi intorno ai quali si levano paesaggi astratti, fatti di pochi elementi, sopravvissuti all’oblio: una linea di mare, la curva di una collina, una stanza disadorna, una strada con figure prive di volto, e tuttavia, in mezzo a quei resti di immagini, l’evidenza di un profilo, talvolta un modo di sorridere, e persino il suono di alcune parole. Quel che accade con il tempo dell’infanzia, che si mostra talvolta con l’opacità e la luce di un’alba immobile, confinante con un tempo onirico, distaccato da quell’io che vorrebbe ricordare e raccontare, si ripete con le altre stagioni della vita, anche se in forme meno bucherellate dal vuoto della dimenticanza.
Eppure proprio in questo al di qua del colore definito, in questo presagio della forma, in questa lontananza che si ostina a sottrarsi all’evidenza della prossimità visiva, la geografia interiore dispone le sue carte. Che hanno nomi di paesi, e hanno voci e volti. L’atto del ricordare non è che l’esercizio di una resistenza che custodisce quel che il presente, con le sue immagini, vorrebbe respingere nell’indistinto del già vissuto. In questo lavoro di preservazione la geografia sostiene il tempo, il suo mostrarsi per frammenti: è quel che accade nella Recherche proustiana, nell’addensarsi delle immagini in un “frammento di tempo allo stato puro”, richiamato alla presenza interiore da un particolare visivo o auditivo e dall’inattesa scossa della sensazione che il suo apparire ha provocato.