di Massimo Galiotta
L’approccio metafisico nella produzione artistica di Biagio Magliani
«Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, perché esso pone troppo angusti limiti all’intelletto, e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro[1]»
In arte sovente avviene che la profondità, di questo spazio metafisico a cui fa riferimento Kant nella sua Critica, sia data dai cromatismi specifici dei contrasti di colore e nella fattispecie da quello freddo-caldo che è particolarmente idoneo a conferire un essenziale effetto di «illusionismo plastico». Quando questa capacità illusorio-plastica, in un’opera d’arte, è in grado di far sperimentare sensazioni nuove e strettamente correlabili alla «estetica trascendentale»[2], solo allora si potrà parlare, con cognizione di causa, di una prospettiva cosmica capace di evocare quello «spazio al di là delle sfere celesti» il cosiddetto Iperuranio in cui proprio Platone vi collocò, nel suo Fedro, la sede delle realtà assolute, e in cui Biagio Magliani colloca i suoi soggetti. In questo spazio freddo l’elemento esperienziale (frutto della percezione sensoriale e quindi di una riflessione postuma), rappresentato da una cesta di pane, da un gruppo di limoni o di fichi scaldati dal sole mediterraneo, ha la funzione di determinare la dimensione finita, ma soltanto sulla tela, di uno spazio infinito e indefinibile come tale. Questo spazio[3] che appartiene alle conoscenze cosiddette «a priori», è il vero centro d’interesse dell’opera d’Arte. Si tratta di uno spazio che catalizza l’attenzione e canalizza l’energia della mente speculativa verso l’indagine filosofica; è solo in un secondo momento che l’analisi critica si sposta sull’oggetto ritratto, che è sì un prodotto «esperienziale»[4] ma che per il modo in cui viene affrontato da Magliani si può farlo rientrare, anch’esso, tra quelle forme esistenti solo nelle regioni insondabili della «ragion pura».