Scritti su Giacomo Leopardi 8. ll primitivo e il popolare come pensiero ed arte di Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”

Universalità linguistica

Tale immutabilità consiste nello stretto rapporto tra la natura e ciò che in essa è contenuto. La natura contiene anche l’idea universale del bello e, d’altra parte, la forma del bello coincide a sua volta col principio universale del conveniens. Ciò si può inverare nel binomio pensiero e arte presente nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, momento altissimo di vita poetica, a cui contruibiscono l’arte, intesa come invenzione poetica, e la filosofia. Lo stile, il tono del canto è intenso. Esso procede per sommi capi, fissando il vertice delle idee superiori e sorvolando quelle intermedie. Nella prima strofa domina il mistero della vita come eterno sensibile. Questo tema si dilata a mistero della morte nella quarta strofa in cui è immaginata la vita della terra contemplata dagli astri, e viceversa:

(…) tu forse intendi

(…)

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir della terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

(vv.62-68)

Sul viso dell’uomo che muore sembra passare una nuvola di ombra che spegne la luce della vita. Nella seconda e terza strofa è rappresentata la vita caduca dell’uomo. A chiusura del canto il pastore si volge con impeto lirico alla luna e alla greggia, unici compagni del suo malinconico cammino.

(…)

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell’innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D’ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. (…)

(vv. 90-98).

(…)

Dimmi, perché giacendo

A bell’agio, ozioso,

S’appaga ogni animale;

Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?

(…)

(vv. 129-132).

Leopardi ha rinvenuto queste parole, che di per sè non dicono nulla di più da quello che immediatamente significano, al termine di un processo attraverso il quale la lingua, dapprima in maniera confusa e poi chiaramente, si è incorporata in espressioni di puro senso, idee metafisiche e astratte (Adoprar, terrena, cosa, girando, uso, frutto, giacendo, agio, ozioso, tedio). E’ il percorso che va dal linguaggio familiare e comune al linguaggio degli poeti. La natura difatti comporta che non la lingua degli scrittori cambi quella del popolo e vi si introduca, ma viceversa, che la lingua del popolo venga ricondotta alle forme e alle leggi universali della letteratura e della lingua nazionale.

La distruttibilità dell’uomo

Il canto nasce dal disperato sentimento di solitudine dell’uomo, ma anche da una riflessione sul tragico destino universale. E’ felice la greggia che giace placidamente al lume della luna, perché non conosce la sua miseria e ignora di dover morire, laddove la quiete e la sicurezza dell’animo sono eternamente escluse dall’ultima ora dei mortali.

Il lettore del canto è però indotto a pensare più di quello che il poeta ha espresso, perché la lingua vi assume un valore metafisico e poetico, intuitivo e profondo.

che vuol dir questa

solitudine immensa, ed io che sono?

(vv. 89-90).

Il tarlo di un pensiero rode il poeta, che l’uomo sia fra le infime creature dell’universo. Per stolida presunzione egli ha sempre ritenuto l’universo fatto per sé (Cfr. il Dialogo di un folletto e di uno gnomo del 1824). Esiste invece una pluralità di mondi che “(…) mostra l’uomo un essere non unico, come non è unica la collocaz, il moto ed il destino della terra (…)” (Zib. 84 del 1919). L’interpretazione che la cultura medievale dalla Scolastica fino a Dante ha dato del sistema tolemaico, strumento di Dio finalizzato alla salvezza dell’uomo nella sfera spirituale prima che nell’ordine fisico, è rovesciata nell’operetta morale Il Copernico del 1827. Il sistema copernicano, togliendo la terra dal centro immobile dell’universo, indica che l’uomo non è un essere privilegiato e nessun disegno provvidenziale lo ha reso civile e lo dirige verso la perfezione. Con grande tensione e spessore intellettuale e morale, prende così forma nel Leopardi il pensiero che l’uomo storico e individuale è distruttibile. Il Leopardi ritornerà su questo tema in maniera originale tra il 1831 e l’anno della morte nei Paralipomeni della batracomiomachia (canti 7 e 8) dove è descritto il viaggio aereo del conte Leccafondi e di Dedalo, verso un Averno posto al di là di ogni terra conosciuta. Anche qui viene richiamata la piccolezza dell’uomo e l’antica presenza minacciosa della natura a lui ostile. La natura genera orrore, e questo diventa radice del senso di giustizia e di pietà del poeta. L’uomo vince l’orrore acquistando coscienza della propria piccolezza e solitudine e miseria. Siamo al tema de La Ginestra del 1836.

La distruttibilità dell’uomo storico e individuale è il tema centrale del canto. Lo confessa il pastore mediante il colore nativo della sua lingua che non si allontana dal suo stato e forma primitivi. Lacero, sanguinoso, precipitando, perir, male, miseria, affanno, danno, mi lagno, funesto sono moduli espressivi elementari, ma idonei a rappresentare al vivo e a destare con efficacia il pensiero della distruttibilità dell’uomo. Osserviamo che la sola natura può ricondurre le cose umane al primitivo loro andamento. Nel canto tuttavia la lingua, in virtù della capacità di astrazione del poeta, appare come svincolata dal maggiore incremento dell’arte e rigenerata per mezzo del pastore in uniformità con la sua indole primitiva. E questo ci pare l’argomento più idoneo a convalidare il giudizio di Emilio Bigi (il critico che con maggiore interesse ha studiato il canto; l’altro è stato il Monteverdi che ne ha analizzato la struttura e i tempi di composizione), che non sia stata la notizia sul Iournal des Savants dei pastori kirghisi dell’Asia e dei loro tristi canti a offrire l’occasione del canto medesimo, ma l’interesse del poeta tra il 1828 e il 1829 per la lirica primitiva e popolare, interesse che fa emergere l’uso della ragione allo stato puro, a fargli scoprire e dare grande rilievo alla relazione del barone di Meyerdorff, Voyage d’Orembourg à Boukkara, fait en 1820 dove si parla dei pastori kirghisi che passano la notte seduti su una pietra a guardare la luna e a improvvisare malinconiche cantilene.

L’interesse di Leopardi per Omero mai interrotto durante tutta la sua vita, e per gli antichi e i loro tempi e costumi e opinioni, si accentua tra il 1828 e il 1829 e passa attraverso lo studio dei Contes populaires des Danois per M. Winther, Ideés sur Homère et sur son époque per C. A. Schubarth, Introduction à l’étude de l’Iliade et de l’Odyssée per W. Muller, Prolegomeni ad Omero di Wolf, Chansons nationales serviennes per Wuk Stephanowisch, Chanson des iles Foeroeer per H. C. Lyngbye, Historie de Suède di Botin.

La categoria del primitivo e del popolare svela a Leopardi il fenomeno, presente presso tutte le nazioni nel loro primo ingresso alla civiltà, della letteratura poetica che precede quella prosaica e si conserva per mezzo dei rapsodi. La prosa non è allo stesso modo conservabile, e quando la scrittura diventa comune e si compone in prosa, la poesia è già molto avanzata e la lingua poetica è già formata da secoli. Resta acquisito un principio: i versi non vengono consegnati alla memoria al fine di trasmettere la conoscenza delle cose, poiché anche quando è stato reso comune l’uso della scrittura, si continua a recitare in pubblico; infatti nell’antichità non è mai stato ritenuto pubblicato ed edito se non quello che è stato comunicato a viva voce al popolo, al cui utile e piacere la letteratura è finalizzata. A riscontro di questa tesi ricordiamo che Matteo Imbriani racconta come a Napoli si sia letto con uguale fine l’Orlando Innamorato del Berni e la Gerusalemme Liberata del Tasso, e il popolo ha preso partito per l’uno e l’altro eroe. Una notte addirittura due del volgo sono andati a svegliare il famoso abate Genovesi per sapere da lui a chi dar ragione, se a Rinaldo o a Germando. Un esempio di interesse veramente popolare per la letteratura e un modo di dir veramente pubblicati i versi. La poesia ha costituito per secoli la sola letteratura popolare, che il popolo ha perduto quando la letteratura è divenuta più colta e, in quanto tale, lontana dal popolo.

Alla luce di queste considerazioni si osserva che se il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, senza uscir fuori da se medesimo, e trova ogni altra lingua incapace di rendere i moti dell’animo suo, il Leopardi, rinvenendo nel pastore errante l’interprete del suo sentire, ha rigenerato la lingua poetica dei primitivi per mezzo di immagini fanciullesche e quindi popolari riguardanti i fenomeni della natura e la cosmografia. In altri termini queste immagini hanno risvegliato in lui la rimembranza confusa della fanciullezza, che è tanto più grata e poetica quanto più è lontana e vaga, e insieme con esse l’estatico rapimento dinanzi alla scena dell’universo e, come ben dice il Fubini nella nota introduttiva al suo commento al canto: “(…) sola rimane di tutto il mondo naturale, immagine antica e costante della poesia leopardiana, la luna, e tutto il canto si svolge sul modulo al poeta carissimo del colloquio con la luna (…)“; giudizio che appare maggiormente preciso se è messo in rapporto con la seguente annotazione leopardiana in Zib. 2385 del 2 febbraio 1822: “(…) I nomi delle cose che sogliono essere denominate prima d’ogni altra in qualsivoglia lingua, nel latino, se ben osservate, sono monosillabi, o tali che facilmente se ne scuopre una radice di non più che una sillaba. Segno evidente di conservata antichità, e questa remotissima e primitiva. Non così, o non sì spesso in greco, dove sovente i detti nomi non sono monosillabi, né se ne può trarre una radice monosillaba. Dies-eméra; vir-anér; sol-élios; lun-a-seléne (…)” Ma questa medesima è un’altra prova anche più materiale che la lingua latina fosse più tenace della sua antichità (…)”, riferimento al monosillabismo linguistico come spia della categoria del primitivo, forse per effetto dello stupore davanti al creato.

Le precedenti considerazioni inducono a mettere in evidenza che pochi errori possono essere attribuiti al popolo, in quanto esso ha poche cognizioni e poca presunzione di conoscere. La sua ragione semplice, vergine e incolta è un principio di conoscenza comune a tutti gli esseri capaci di scelta e destinato a supplire ai bisogni. Altra cosa è la sapienza che postula i requisiti della ragione coltivata e ricca di dottrina. La sapienza ha corrotto l’uomo dando alla ragione il primato sopra la natura. Leopardi cita un esempio attestante la capacità di astrazione e di generalizzazione in conformità alla primigenia essenza naturale dell’uomo. Bambini di due anni profferiscono i verbi irregolari della lingua con le inflessioni proprie dei verbi regolari: io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso, come da sentire si fa io sento e da vedere io vedo. I bambini non imitano ma riflettono e ragionano con un loro principio di conoscenza semplice e vergine (Zib. 4429-4430 del 4. del 1829). Nella natura non ci sono contraddizioni e la dottrina della perfezione naturale e primitiva dell’uomo resta confermata in pieno. Perciò non si può pretendere di analizzare, scomporre e risolvere nei suoi ultimi elementi la natura per mezzo della ragione, penetrare quel che essa ha destinato e risalire alla causa del suo essere e alla causa finale. Tutto questo è compito e scopo del filosofo. In realtà v’è una sola certezza: la natura, intesa come l’insieme di tutte le cose, è soltanto conformata e ordinata a produrre un effetto poetico generale, ma anche effetti particolari, relativamente al tutto o a questa o a quella parte, a condizione che subentrino l’immaginazione e la sensibilità, in quanto l’effetto poetico si conosce, si scopre e si intende, a patto che si senta.

Ecco allora che nel canto del pastore-Leopardi si è riversata la ragione semplice, vergine e incolta di un primitivo, la ragione di un primitivo ha toccato il cuore del poeta e si è fatta canto, perché solo al cuore spetta di sentire e quindi conoscere ciò che è poetico, perché a esso solo tocca di penetrare nei grandi misteri della vita e del destino, e creare un sistema metafisico che sia il più possibile simile al vero e il meno possibile assurdo e improbabile.

E noi sentiamo che nel canto del pastore-Leopardi, accanto al sogno dell’infinito e accanto al pensiero del tempo e a quello dell’eterno, germoglia già il bisogno di trovare un fine che sia degno della vita. Dal fronte della infelicità ineluttabile del genere umano, si scorge già all’orizzonte non tanto la prospettiva della lotta comune contro la natura, ma il valore nuovo che la necessità di quella lotta esprime e che consiste nella fraternità universale di tutti gli uomini. E’ il messaggio de La Ginestra che indica l’attualità e la modernità del Leopardi.

[Il primitivo e il popolare come pensiero ed arte del Leopardi nel “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, “Il Corriere nuovo”, IV, 1981, 8, pp. 4-5.]

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