Un’analisi meno ingenua porta a una conclusione assai diversa: l’Europa è semmai un luogo di conflitto fra “frazioni di capitale”, in particolare quello francese e tedesco, e, come si evidenzia nei fatti, molto raramente esprime una posizione unitaria. Può essere sufficiente considerare l’annosa diatriba fra “rigoristi” e Paesi mediterranei (con i primi a sostenere le virtù del pareggio del bilancio pubblico e i secondi a opporvisi) per avvalorare questa conclusione. I sovranisti partono dal dato – innegabile – per il quale il tessuto produttivo italiano è stato investito da una forte ondata di acquisizioni, spiegano il fenomeno con la perdita di potere politico dell’Italia a seguito dell’ingresso nell’Unione europea, derivano la conclusione per la quale è la proprietà estera delle imprese a produrre sotto-investimento. Tacciono, tuttavia, su queste evidenze. 1) Le acquisizioni sono da inquadrare in una più generale dinamica di centralizzazione dei capitali, che ha investito tutti i Paesi OCSE, sia per quanto attiene agli assetti proprietari, sia per quanto attiene alla loro localizzazione. Si calcola, a riguardo, che su scala globale, nel periodo della “seconda globalizzazione” (dal 1990 a oggi), gli investimenti diretti esteri sono passati da 1/10 del Pil mondiale a 1/3 del Pil mondiale. 2) L’Italia non è un Paese colonizzato. La quota di imprese a controllo estero – quelle con almeno il 50% di capitale posseduto da azionisti stranieri – è la più bassa fra i principali Paesi europei ed è pari a circa il 4%, contro, ad esempio, il 12% e più del Regno Unito. Questo dato non è altro, peraltro, che la conferma del fatto – ben noto – che l’Italia stenta ad attrarre investimenti diretti esteri. A ciò si aggiunge che solo in sporadici casi le imprese italiane sono finanziate da capitale monetario straniero: resta prevalente la forma di finanziamento del credito bancario. Anche in questo caso, l’evidenza conferma un fatto ben noto, ovvero la prevalenza, nel nostro Paese, di imprese di piccole e medie dimensioni. È poi falsa la tesi sovranista per la quale è la non italianità delle imprese a generare sotto-investimento. L’evidenza empirica mostra che le imprese con controllo straniero hanno tassi di internazionalizzazione più elevati. Si tratta, infatti, di imprese di grandi dimensioni, tendenzialmente multinazionali. Si tratta di imprese che generano un elevato valore aggiunto. In un Report del luglio 2022, l’Osservatorio Imprese Estere ha rilevato che l’apporto delle multinazionali straniere agli scambi commerciali raggiunge il 32% delle esportazioni e oltre il 46% del totale delle importazioni realizzate dalle imprese residenti in Italia. L’evidenza mostra poi che i processi di acquisizione riguardano anche – e in modo rilevante – l’attività ‘predatoria’ di imprese italiane all’estero e che sono quantitativamente significativi i casi di delocalizzazione effettuati da imprese italiane. A dimostrazione del fatto che le scelte di produzione e localizzazione sono indipendenti dalla “bandiera” e che non è dato riscontrare un movente patriottico nel fare impresa. Per conseguenza, non vi è alcuna ragione per attendersi, in linea con il pensiero sovranista, che le imprese italiane siano più attente alla salvaguardia dell’occupazione italiana.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 27 agosto 2022]