Appunto un grande Liber medievale, che invece di svolgersi su pergamena accompagnato dall’ incanto delle miniature, si dispiega, lungo tutto il pavimento della Cattedrale, con le pietre di un mosaico che narra per figure, commenta, interpreta, sospingendo gli sguardi degli spettatori sul confine tra il sapere e la favola, tra la devozione e il sogno.
Se è autentica l’attribuzione del grande mosaico al monaco basiliano Pantaleone, e così anche la data delle sua esecuzione, che indica l’arco tra il 1163 e 1165, c’è un legame tra questa meravigliosa esperienza artistica, ancora oggi esposta agli sguardi dei visitatori, e il Cenobio di Casole, al quale apparteneva l’artista. Un Cenobio basiliano che il tragico assalto dei Turchi a Otranto – agosto 1480 – avvierà verso una rapida sparizione.
È appunto di questo luogo che ora vorrei dire, di questo luogo che non c’è, di questa mancanza che avverto nell’aria, tra gli alberi e le ombre e le scaglie di luce marina, ogni volta che da Otranto mi accade di andare verso punta Palascìa, la striscia di roccia con il bianco faro che è il luogo più orientale d’Italia. Perché anche di voci e mura, di canti e portici, di passi e pensieri non più esistenti è fatto il paesaggio.
Anzitutto questa assenza, su un terreno che guarda il blu del mare, ha con sé il riverbero, invisibile ma persistente, di quel giorno lontano – un giorno appunto dell’agosto 1480 – quando le galee turche apparvero al largo di Otranto, e trasformarono presto la minaccia nell’assalto, le incursioni nella follia sanguinaria di una strage. I Veneziani avevano in quei mesi allentato la sorveglianza nel canale di Otranto, interessati più alla difesa delle isole del Peloponneso che a quella delle coste pugliesi.
Fino a quell’estate il monastero di Casole era stato non solo un attivissimo centro scrittorio, ma anche una scuola di lettere greche e latine. E un luogo dal quale muoveva verso la campagna salentina un sapere didattico che riguardava la conduzione agricola, un sapere delle culture arboree, delle semine e delle cure botaniche. Intorno, sparse nella campagna, le metochie, cioè le altre strutture religiose di rito bizantino, dipendenti dal monastero di Casole.
Nel Cenobio le ore della preghiera, del lavoro, del riposo erano scandite dal suono di uno strumento ligneo, detto silandra: per ogni tipo di attività prescritta un suono diverso. I monaci erano guidati dall’igumeno, una sorta di abate responsabile di tutte le attività relative allo studio, alla liturgia, al lavoro agricolo e a quello che era il cuore della vita monastica, cioè lo scriptorium: una Biblioteca sotto le cui volte i copisti trascrivevano codici greci e latini. Colui che da vicino presiedeva alla sorveglianza dei copisti, alle scelte e ai tempi del lavoro di trascrizione, era il protocalligrafo.
Alcuni dei codici copiati e conservati nel Monastero di Casole si sono salvati dalla distruzione: il veneziano cardinal Bessarione, tornando dall’Oriente, alcuni anni prima dell’assedio di Otranto, aveva portato con sé molti di quei codici (forse sapeva, da accorto politico, del destino – o programmato abbandono ? – che incombeva sul centro scrittorio). Alcuni di quei codici salvati si trovano infatti, ora, alla Marciana di Venezia, altri in altre Biblioteche, e ce n’è uno a Torino (appunto, il codex Taurinensis), che dà notizie su tutti gli igumeni che a Casole si sono succeduti via via nel tempo, dal 1098, anno di fondazione, al 1469.
Il periodo culturalmente più vivo fu quello, dal 1219 al 1235, nel quale igumeno fu Nettario, esegeta sottile di testi sacri, teologo, polemista, diplomatico, poeta. Intorno a lui un vivace circolo poetico: autori di carmi, di epigrammi, di composizioni che contaminavano temi cristiani e temi mitologici, il tutto affidato a una lingua greca aperta alla sperimentazione di modi e di forme. Non ci sono testimonianze che raccontino di rapporti tra questi poeti italo-bizantini e i contemporanei poeti della “scuola siciliana”. Ma possiamo supporre che anche essi, con tutto il gruppo sorto intorno all’igumeno Nettario, erano parte di quel fervore – fondato sull’incontro di lingue e culture e saperi dell’area mediterranea – accesosi nella corte di Federico II.
Di tutto questo nessun vestigio visibile, non il resto di un portico, di un affresco, di una volta, neppure i segni di una planimetria confusa tra le erbacce e i pietroni. Le sopravvissute pergamene miniate, con frammenti di classici greci e di teologia patristica, sono custodite altrove, in altre lontane Biblioteche. Qui soltanto il volo di una gazza che attraversa la strada. E il suono del mare che giunge dalle scogliere. Un canto naturale che scivola sul tempo effimero cui diamo il nome di storia.
[“Doppiozero” del 18 agosto 2022]