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La Necessità secondo il Coro nell’Alcesti (vv. 962-979) di Euripide (traduzione di Filippo Maria Pontani):
Io che lessi poeti
e librai la mia mente, e che
infinite teorie toccai,
nessun farmaco colsi
forte più di Necessità
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E’ lei l’unica dea
cui non giova rivolgere
preci o sangue di vittime.
Il tuo peso, sovrana,
più di prima non gravi me.
Zeus accenna, e i voleri
è con te che li compie.
………………………………….
Quanto accade inevitabilmente, questo è Necessità. La lettura dei poeti e quella dei filosofi non serve a contrastare la dea. Essa è come un farmaco potentissimo, dunque può guarire o può uccidere, e l’uomo non può farci nulla. Non servono le preghiere e i sacrifici, perché Necessità è inesorabile. L’uomo è impotente, la sua volontà è nulla. Necessità infatti realizza immancabilmente una volontà sovrana e incontrastabile, quello del sommo dio, Zeus, semplicemente rispondendo a un suo cenno (ad nutum).
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Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole
e più non dimandare
dice Virgilio a Caron dimonio nel terzo canto dell’Inferno dantesco. Una volontà superiore vuole il viaggio di Dante nell’oltretomba. In quale luogo la volontà coincide con la possibilità? Dove si può ciò che si vuole? In paradiso, certo. Solo in Dio potere e volere coincidono, non certo nell’uomo. Il quale vuole, ma il più delle volte non può. La limitatezza dell’uomo è tutta nella sua volontà e volerla esaltare come decisiva costituisce una grave hybris. Quella di Dante è una prospettiva teologica, propria dell’uomo medievale, ma, a mio avviso, essa è applicabile in chiave laica anche al mondo contemporaneo, nel quale l’uomo soffre di un’altrettanto grave hybris, quella che gli deriva dal suo senso di onnipotenza, dalla sua fede cieca nella tecno-scienza.
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Leggo in Diego Fusaro, Homo resiliens, in Odio la resilienza. Contro la mistica della sopportazione 1, ebook pubblicato per Rizzoli da Mondadori Libri S.p. A., Milano 2022, una feroce critica della resilienza, ch’egli esprime in questi termini: “Con la resilienza, infatti, ci si congeda pavidamente da una delle prerogative che più ci contraddistinguono in quanto appartenenti al genere umano, vale a dire dall’insoddisfazione per le cose come stanno e dalla conseguente capacità, sorretta dalla volontà militante, di mutarle in vista di ulteriorità nobilitanti, di stati diversi e migliori e, comunque, meno indecenti di quelli in atto.”
L’insoddisfazione è la molla della volontà, “la volontà militante”, come vuole Fusaro, fondata sulla critica dello stato presente delle cose, delle cause e dei responsabili che lo hanno determinato. Sono convinto che un approccio critico alla realtà sia necessario e ineludibile per chi non voglia vivere nell’inganno e nell’autoinganno, ma che sia del tutto sbagliato il passaggio dalla critica all’odio, che, come la storia ha abbondantemente dimostrato, non può che essere foriero di immensi lutti. Fino a che punto la “critica militante” non è un modo per affermare se stessi, ovvero per imporre agli altri la propria volontà di potenza? La “critica militante” non può escludere il soggetto militante dall’esercizio della medesima critica che rivelerà i limiti e le insidie della volontà, i suoi infingimenti e i suoi pretesti. Io e la realtà, infatti, non siamo diversi, non siamo soggetto e oggetto dialetticamente contrapposti, come crede chi esercita la “critica militante”, ma formiamo nel mondo un unico essere vivente unito dallo stesso destino.
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La volontà deve servire al viver bene (io voglio vivere bene) e per questo non c’è una formula che valga per ogni situazione, di volta in volta occorrerà regolarsi. Viver bene, ovvero in primo luogo evitare il conflitto. L’homo polemicus, quello che ha ideato la formula per la distruzione dell’umanità, quello che odia e vorrebbe la morte dei suoi simili, che ingannevolmente reputa diversi da se stesso, il cannibale, non deve avere il sopravvento sull’homo criticus (anche di se stesso), che, attraverso l’attenta disamina delle idee, sa discernere qual sia il miglior modo di condursi nel mondo.
L’uomo è un essere tragico poiché nascendo va incontro alla morte. La volontà può aiutarlo a vivere bene, ma, se è volontà di sopraffazione dell’altro, è cattiva consigliera e accelera il suo cammino verso la morte.
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Pochi sognano la rivoluzione violenta contro pochi che detengono il potere e cercano di monopolizzare la violenza: questi massacrano i popoli, il loro pensiero è segnato dalla malafede e dall’interesse egoistico; quelli sono animati da uno spiccato senso critico (ma non autocritico), e se prendessero il potere, massacrerebbero i loro simili senza pietà e senza rimorso. In mezzo ci sono i più, i resilienti, che si piegano e si rialzano e poi si piegano ancora, all’infinito come canne al vento, senza spezzarsi. Preservano la nuda vita – non un diritto che qualcuno concede, ma una necessità di natura – senza saperlo. Mancano infatti di capacità critica nei confronti di se stessi e del mondo. Infine, coloro che non appartengono a nessuno di questi gruppi, non hanno il potere e non lo cercano, esercitano la critica dell’esistente non per calcolo o per insoddisfazione, ma per un desiderio di conoscenza e di giustizia, finalizzano la propria volontà al vivere bene, che ricercano in ogni momento dell’esistenza. Il viver bene è una forma di resistenza, consiste nel distacco, nella non partecipazione alle azioni di chi chiede di conservare il potere e di chi preme per ottenerlo, nel rifiuto della menzogna e del conflitto. La menzogna nasce sempre, infatti, dove c’è conflitto. Vi nasce anche la verità, per i pochissimi che sanno vederla. Nella misura in cui polemos è, come vuole Eraclito, “padre di tutte le cose”, costoro sanno che solo resistendo a questa logica è possibile salvare la civiltà degli uomini, ovvero continuare a vivere tra gli uomini, nella città. Se è vero che oggi la volontà umana, spintasi fino all’eccesso della potenza, potrebbe portare l’umanità all’autodistruzione, la volontà dei resistenti oggi non solo si configura come l’unica forza positiva della città, ma anche l’unica in grado di dare a tutti gli uomini una prospettiva d’azione non violenta, inconcludente nell’immediato, ma utile, nel lungo, lunghissimo periodo, alla necessaria trasformazione antropologica dell’uomo, destinato a scegliere tra una possibile autodistruzione e un’auspicabile evoluzione.
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Ogni vivente non può negare la propria volontà di potenza, pena la negazione di se stessi. Ma a noi è dato scegliere se indirizzare la nostra potenza verso il dominio e la distruzione oppure verso la pace e la vita. Scrive Byung-chul Han, Silenzio, in Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale, VI, Giulio Einaudi Editore. Torino 2022: “Vanno distinte due forme di potenza. La potenza positiva consiste nel fare qualcosa. La potenza negativa è il potere di non fare nulla. Non collima tuttavia con l’incapacità di fare qualcosa, in quanto non è una negazione della potenza positiva, bensì una potenza autonoma. Essa rende lo spirito in grado di indugiare nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione. Qualora manchi la potenza negativa, cadiamo in una distruttiva iperattività. Sprofondiamo nel baccano. Solo il rafforzamento della potenza negativa può ripristinare il silenzio. La coazione dominante a comunicare, che si rivela nei termini di una coazione a produrre, distrugge volontariamente la potenza negativa.”
Il fare nulla, non per incapacità o pusillanimità, bensì per spirito contemplativo e amore del silenzio, in un mondo rumoroso e iperattivo, questo è un modo saggio di utilizzare la propria potenza.