Breve saggio sulle cartiere abbandonate

di Antonio Devicienti

Questo è un breve saggio che indaga ragioni sentimentali, non economiche né sociali – ma che non ricerca facili effetti estetizzanti nei luoghi abbandonati d’era industriale e postindustriale. La cartiera abbandonata è, infatti, come una conceria abbandonata, come un opificio tessile abbandonato, come un mulino abbandonato un restare di muri, di finestre talvolta accecate, talaltra infrante, di tetti semicrollati, in alcuni casi anche di macchine inutilizzabili; un “restare”: un rimanere, cioè, sulla riva di un corso d’acqua oppure alla fine di una carrozzabile ma senza più frequentazione umana. Restare senza più attese, nel lento consumarsi dei muri che nulla e nessuno difende più dagli agenti atmosferici.

Sono le cartiere abbandonate premonizione dell’abbandono del libro e del quaderno cartacei, uscita da un’era di manualità e di artigianalità?

Eppure qualcosa di simile accadde forse durante la transizione dalle pelli conciate e lavorate per i codici manoscritti alla carta, la sensazione di un tramonto senza saper antivedere in maniera chiara l’alba.

Il restare abbandonati e il consumarsi irreversibile degli edifici delle vecchie cartiere disloca altrove il futuro e chi rimane affezionato al loro ricordo si sente estraneo al mondo nuovo che sembra annunciarsi – raggiungere una cartiera dismessa è raggiungere un ricordo, vederlo lasciarsi abitare dal silenzio, accogliere la consumazione e lo svanire – e avere con sé un taccuino e una matita, fibrosa carta sulle cui tramature la grafite lascia tracce di parole e disegni. Scrivere sulla carta dentro una cartiera dismessa è immagine di scritture poco persuase dal nuovo che avanza, dalla trionfante modernità? e la questione non riguarda (è evidente) le innovazioni tecniche, non gli strumenti, ma la percezione e la rappresentazione del reale, gli orizzonti e i valori di riferimento, la dialettica tra i tempi della storia del pensiero.

[La Dimora del Tempo sospeso, 2 aprile 2021]

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