Taccuino estivo 5. Paesaggio

Seguivo il suo movimento: avvicinandosi la figura si ingrandiva, si definiva anche nel colore, si schiariva. Un ibis alto, solitario, camminava piano lungo la riva. Il bianco del piumaggio via via usciva dallo scuro, il passo era quieto, sicuro. Mi passò davanti, solenne, astratto nella sua serale bellezza, proseguì lungo la riva fino a ridiventare una piccola figura scura confusa con il promontorio che si affacciava all’inarcarsi della striscia di sabbia. 

All’apparenza era un borgo fortificato: una decina di torrioni circondavano lungo alte pareti le strade e le case. Sotto ogni torrione un arco per il libero passaggio: non c’erano tracce di antiche porte. Ma ci si accorgeva subito che le torri non erano difensive. In alto ciascuna aveva come una specola: da lì si poteva osservare il cielo notturno. Infatti da una finestrella sporgeva il tubo ottico di un telescopio. Il disegno delle strade era semplice: le vie che partivano dalle porte erano a loro volta attraversate da cerchi concentrici: in certi incroci si apriva una piazzetta con una fontana, circondata da alti alberi, ogni volta diversa per forma e grandezza.

Le fontane erano il luogo di ritrovo per gli abitanti: tutt’intorno una grande animazione. Le case avevano epoche diverse, colori diversi, tutte con tetti rossi e balconi con fiori, terrazze chiare dalle quali pendevano buganvillee e altri rampicanti fioriti. In una delle piazze c’era per terra una grande Rosa dei venti, composta da pietre di colori diversi, porfidi, travertini, graniti, ardesie. Dalla porta più a Nord – lo appresi da un passante – partiva la via del mare, da quella più a Sud la via dei giardini. Da Est la via delle colline, da Ovest la via del deserto. 

Ero sulla costa Sud della grande isola greca. Il fiume, verdazzurro, scorreva tra due schiere di palme alte, composte, dai ventagli pieni di un cielo pomeridiano privo di nuvole. Scendeva da un aspro retroterra rupestre e andava verso la riva del mare. Lungo gli argini, all’ombra delle palme, alti papiri salivano dalle acque. Poco prima di giungere al mare il fiume piegava costeggiando per un tratto la riva, non più scortato da palme e da papiri: anche i suoi argini erano di sabbia, ora. Scorreva a lato della linea del mare, del suo biancheggiare tra tappeti di conchiglie. Il fiume, il mare: una prossimità quieta, con uno scambio di musiche, e un riverbero reciproco di colori. Di fronte il blu delle acque correva con scaglie di luce verso il suo orizzonte. 

Ripenso a questi luoghi visti, custoditi con cura nel tumulto della distrazione che è il quotidiano vedere, ed è il viaggiare: forse quel che chiamiamo paesaggio non è che il sovrapporsi di un velo leggero sopra quel che è dinanzi al nostro sguardo. Un velo tessuto con i fili colorati e lucenti di quello che abbiamo visto e preservato nell’affezione, e nella memoria. 

O forse è proprio questa l’essenza del paesaggio. Un’essenza che ha il suo fondamento nel confine leggero dove quel che abbiamo visto si fa contiguo a quel che abbiamo sognato. Dove il ricordo si sfrangia nel desiderio. E la bellezza non è che la mescolanza del visibile con l’assente. 

[“Doppiozero” dell’ 11 Agosto 2022]

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