Forse abbiamo perduto le parole dell’intimità, quelle con cui si dice il desiderio, l’amore, il dolore, l’odio, la paura, il sogno, la speranza, la memoria, l’emozione. Anche l’intimità la esprimiamo con parole incoerenti, generiche, piatte, mediocri, consumate, banali, bugiarde. Vacue.
Sono decenni, ormai, che accade questo.
I media di massa hanno stroncato e appiattito, elaborando un linguaggio potente e invadente contro il quale probabilmente ogni battaglia è perduta in partenza. Hanno indotto ciascuno di noi a fare il lavoro che faceva Cinoc, un personaggio di quella immensa foresta di storie che è “La vita istruzioni per l’uso” di Georges Perec.
Di mestiere Cinoc faceva l’ammazzaparole. Lavorava all’aggiornamento dei dizionari Larousse. Ma, mentre altri redattori erano sempre alla ricerca di parole e significati nuovi, lui, per fargli posto, doveva eliminare tutte le parole e tutti i significati caduti in disuso.
Quando, dopo cinquantatré anni di scrupoloso servizio, andò in pensione, aveva fatto sparire centinaia e migliaia di attrezzi, tecniche, usi, costumi, motti, piatti, giochi, soprannomi, pesi e misure; aveva cancellato dalla carta geografica decine di isole, centinaia di città e di fiumi; aveva destinato all’anonimato tassonomico centinaia di tipi di vacche, specie d’insetti, di uccelli e di serpenti, pesci un po’ particolari, varietà di conchiglie, piante non del tutto simili, tipi speciali di legumi e di frutti; aveva fatto svanire nella notte dei tempi legioni di geografi, missionari, entomologi, Padri della Chiesa, letterati, generali, dei e demoni.
Ciascuno di noi è come Cinoc, anche se fa un diverso mestiere. Se non cancella parole dai dizionari, le cancella dalla sua memoria. Oppure le elimina dal suo linguaggio. Soprattutto non le insegna ad altri. Una parola muore quando non passa più di voce in voce, quando non viene scritta più sui libri, quando viene abbandonata, rifiutata. “Le parole abbandonate” è il titolo di un libro di Luigi Malerba, uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, di cui mi onoro di essere stato amico. A conclusione dell’introduzione scrive che la salvezza delle parole rappresenta un tema civile da porre a una società intenta a rinnegare se stessa.
Ma forse ha ragione Carlos Ruiz Zafòn quando nell “ Ombra del vento” dice che l’eco di parole che crediamo dimenticate ci accompagna per tutta la vita ed erige nella nostra memoria un palazzo al quale prima o poi faremo ritorno.
Può accadere che per quello che si perde si provi un sentimento di nostalgia. Forse potrebbe accadere che anche nei confronti delle parole perdute si provi un sentimento di nostalgia. Per quelle parole che ci hanno fatto compagnia in un tratto del viaggio, che per un tempo forse lungo, forse breve, sono state l’espressione di una nostra condizione di esistere, di una modalità di esprimere la realtà e la fantasia, che sono state testimonianza di una civiltà, di una cultura, del senso profondo di un’esperienza, di una passione, di una visione del mondo. Sì, potrebbe anche accadere che nei confronti delle parole che non abbiamo saputo custodire si provi un sentimento di nostalgia.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 21 agosto 2022]