La parola animale. E’ possibile immaginare un mondo in cui le fiere e gli uomini si riuniscano insieme in una sorta di armonia quale doveva esistere ai primordi del mondo? A questa domanda – formulabile solo in sede letteraria – risponde Antonio Prete ne L’ordine animale delle cose, Nottetempo, Roma 2008, un libretto di 95 pagine nel quale si lascia la parola agli animali, ma non, come nella favola antica, per farne dei portavoce dei vizi e delle virtù dell’uomo, ma per riconoscere in essi quanto nell’uomo appare irrimediabilmente perduto: una lingua autentica, un sentire naturale, il senso originario del vivere. “La parola animale … era una parola misurata, essenziale. Teneva le qualità del primitivo silenzio dal cui fondo affiorava come l’acqua da una sorgente” (p. 13). Solo essa può darci la “percezione che quel ch’è perduto è perduto per sempre” (p. 16). Tutto il libretto si può dunque considerare come “un esercizio di approssimazione alla natura, alla sua inarrivabile grandiosità” (p. 26). Così va inteso l’elogio della bestia (“la bestia tiene ancora allo stesso tempo dell’enigma, dell’innocenza e dello stupore” p. 30), condotto spesso coi toni dell’operetta morale leopardiana, a fronte di una considerazione della specie umana “ormai priva di ogni richiamo” (p. 31). Lo scrittore del Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri, Torino 2008) sa bene che l’armonia che deriva dal canto degli uccelli è per l’uomo inattingibile (“miraggio dal quale la lingua dell’uomo, e la poesia che le appartiene, saranno sempre lontane” p. 46); ma proprio questa nostra imperfezione rende necessario “abitare i confini tra il mondo animale e il mondo umano” (p. 73). Il che, come si diceva all’inizio, è possibile solo nello spazio della letteratura, ovvero in quello dell’immaginazione e dell’utopia che rende liberi gli uomini.
Olio. Rossella Speranza, coordina il progetto Olivita, con l’obiettivo di promuovere l’olio extravergine d’oliva e di diffonderne la cultura. Il libro suo Olio d’oliva ragione e sentimento, Mario Congedo Editore, Galatina, 2008, pp. 192, a detta dell’autrice,, nasce sull’onda di un recupero memoriale dei giorni d’infanzia: “Negli anni sessanta” scrive Speranza, lasciandoci supporre che la sua età anagrafica sia al di sotto dei cinquant’anni – mi scuso con l’autrice, ma a me piace sempre sapere in quale tempo storico viva chi scrive un libro -, “la mia famiglia viveva a Roma ma, evidentemente per ragioni affettive, scelse di farmi nascere nella casa dei nonni materni, una villa immersa tra gli ulivi e i mandorli di Puglia” (p. 8). E’ lì che la scrittrice impara a conoscere il sapore dell’olio: “Il pane con l’olio era la nostra merenda abituale o meglio quella che sbrigativamente ci davano quando l’appetito sopraggiungeva” (p. 9). Oggi questi sapori d’altri tempi rischiano di scomparire a causa dell’incalzare dei prodotti industriali, un rischio che corre anche l’olio extravergine d’oliva”, che può essere paragonato “ad un figlio incompreso”, ovvero non capito e addirittura sottovalutato. “Ho avvertito pertanto l’esigenza – scrive l’autrice – di realizzare una pubblicazione che contenesse informazioni precise dal punto di vista tecnico ma sufficientemente divulgative…” (p. 9). Insomma, un libro fotografico, ma non solo, per il consumatore, senza alcuna pretesa di indagine storiografica – l’autrice sa che “quella dell’olio è stata una civiltà drammatica, spietata, di uomini e bestie asserviti ad una fatica estenuante, eppure assolutamente necessaria” (p. 18), e non è questo, dunque, che le interessa -, bensì ricco di notizie ed informazioni per chi desideri orientarsi nel complesso e per certi versi insidioso mercato degli oli.
La scrittrice parte dalla descrizione di un luogo preciso “che ha ospitato il servizio fotografico di questa pubblicazione”, ovvero la masseria Cimino (“si trova in Puglia, in una zona attigua alla Valle d’Itria, a poche centinaia di metri dal mare Adriatico, ed è circondata da uliveti secolari, veri e propri monumenti naturali, che rendono questo territorio unico al mondo” (p. 18); per passare poi in rassegna le varie fasi della lavorazione dell’oliva, dalla raccolta, che avviene secondo varie tecniche (brucatura, scuotitura, bacchiatura, cascola naturale), alla molitura, che può avvenire in modo tradizionale, ovvero con le ruote in pietra, oppure a ciclo continuo attraverso il frangitore (a martello o a dischi dentati); fino alla produzione dell’olio. Messi da parte gli oli raffinati, cioè quelli che “si ottengono attraverso procedimenti chimici” (p. 50), Speranza si occupa degli oli d’oliva vergini. Chi conosce la differenza tra olio vergine e olio extravergine di oliva? Basta leggere questo libro per saperlo: “Gli oli che escono dal frantoio sono, quindi, vergini, ma non è detto che siano extravergini. Per essere extravergine l’olio deve rispettare due parametri essenziali: uno chimico e uno organolettico. L’analisi chimica si effettua in laboratorio mentre quella organolettica è condotta da un gruppo di 8-12 esperti…” (p. 50). L’olio extravergine non deve “superare l’acidità dello 0,8% (risultato dell’analisi chimica)” (p. 52).
Il volume dà poi consigli per gli acquisti, ovvero tutte le informazioni che possono essere utili al consumatore per avere un prodotto di qualità: “Quando osserviamo gli oli extravergini di oliva sugli scaffali dei punti commerciali dovremmo preferire: olio extravergine d’oliva sulla cui etichetta è ben in evidenza l’identità del produttore (peraltro obbligatoria); olio extravergine d’oliva confezionato in bottiglie scure; oli extravergini d’oliva prodotti nella campagna olearia più recente” (p. 54). Il consumatore dovrà essere molto attento ad individuare tutte queste informazioni sull’etichetta della bottiglia per non incorrere in qualche brutta sorpresa al momento di farne uso ed anche per poter meglio conservare la propria provvista d’olio (mai per più di un anno, perché dopo un anno il sapore dell’olio vien meno).
Bruschette, gazpachi andalusi, pancotti, panzanelle (o cialledde), caprini freschi, tzatziki greci, insalate capresi, di grano, di riso, d’avena, insalate d’arance, sì, avete capito bene, d’arance (“possibilmente del tipo sanguinello” p. 101), insalate di mele, rucola e noci; e poi di pere e pecorino, carpaccio di carne, bresaola, insalate di polpo e patate, di tonno, shashimi giapponese e pesto alla genovese, orecchiette con le cime di rapa e sedanini integrali alla crudaiola, spaghetti alla bottarga, e chi più ne ha più ne metta; tutte queste leccornie, ditemi voi, che gusto avrebbero senza una due e anche tre croci d’olio benedicente e insaporente, dell’olio, dico, che è il protagonista indiscusso della nostra tavola? Ebbene, questo libro ci fornisce una serie di ricette che ognuno di noi potrà seguire in cucina per preparare dei buoni manicaretti. Buon appetito a tutti, dunque, e viva la buona salute. Nella pagine finali, infatti, Speranza cede la parola a Dun K. Gifford, presidente di Oldways Preservation Trust di Boston, che spiega bene, anche attraverso la rappresentazione iconografica della “Piramide della Dieta Mediterranea”, al cui centro vi è proprio l’olio d’oliva, come questo tipo di dieta comporti “chiari benefici alla salute rispetto al modello alimentare americano” (p. 183), prevenendo molte malattie, come le cardiovascolari, il cancro, il diabete, ecc. Cosa c’è di meglio, dunque, dell’olio?
La “scuola leccese di letteratura italiana. Uno dei mali che affligge la scuola e l’università italiana è l’autoreferenzialità e la conseguente mancanza di comunicazione tra questi due luoghi di elaborazione e trasmissione della cultura. Che cosa fare, dunque? La risposta è semplice: incrementare quanto più è possibile le occasioni di incontro tra mondo universitario e mondo scolastico, facilitare gli scambi, favorire le cosiddette “sinergie”, abbattere le barriere dell’autoreferenzialità.
E’ quanto cerca di fare un nutrito gruppo di docenti riuniti nell’ADI-SD (Associazione degli Italianisti Italiani – Sezione Didattica), attiva dal 23 ottobre 2006 anche a Lecce sotto la presidenza di Emilio Filieri. Questa Associazione, col patrocinio dei Dipartimenti di Filologia, Linguistica e Letteratura e dei Beni delle Arti e della Storia dell’Università del Salento, ha voluto il Seminario di Studi Salento da leggere. Proposte di lettura ed esperienze didattiche tra ‘600 e ‘900, svoltosi a Lecce il 19 e 20 aprile 2007, di cui recentemente sono stati pubblicati con lo stesso titolo gli Atti, a cura di Antonio Lucio Giannone e Emilio Filieri, Copertino, Lupo Editore, 2008, pp. 211.
Il volume raccoglie i risultati, utilizzabili sul piano didattico, di quella che potremmo definire la “scuola leccese di letteratura italiana”. Giannone nella Premessa è chiaro: “… si sono volute verificare le possibilità di una fruizione didattica di questo importante patrimonio, accuratamente indagato in questi ultimi quattro decenni nell’Ateneo leccese da un gruppo di italianisti guidati da un maestro come Mario Marti, ma quasi del tutto assente, anche nei suoi esiti maggiori, nei manuali e nelle antologie scolastiche” (p. 5). L’idea di fondo, per dirla con Marco Leone, è che “l’indagine su una periferia (Lecce, Salento, Terra d’Otranto) consente spesso l’esercizio ermeneutico su una realtà culturale di più ampia portata (…) colta pienamente nelle sue specificità e nelle sue differenziazioni, a patto che questa indagine sia correlata al livello della “nazione”” (p. 26). Dalla regione per la nazione, appunto, come recita il titolo di un saggio di Marti del 1987. Il pericolo, segnalato dallo stesso Leone, è che il legame regione-nazione sia puramente aleatorio: “Occorre, infatti, – afferma Leone – accostarsi a tale letteratura con tutte le cautele che il caso richiede, evitando destoricizzate enfatizzazioni o deformanti sopravvalutazioni, magari dovute a un mal represso spirito campanilistico” (p. 24).
L’autore più studiato risulta essere Vittorio Bodini (interventi di Giannone, Valentina Sgueglia, Isabel Alonso Davila, Maria Ginevra Barone, Serena Lezzi, Tiziana Marangio), ma gli argomenti trattati sono assai vari e coprono, come da titolo, quattrocento anni di storia letteraria: dalla letteratura barocca a quella dei più recenti, Comi e Saponaro tra tutti – chissà perché nessuno studia Carmelo Bene? -, passando per il Settecento di Ignazio Falconieri e Francesco Bernardino Cicala e l’Ottocento di Liborio Romano e Sigismondo Castromediano.
Alla fine, tirate le somme, non possiamo che essere grati a questo gruppo di docenti – ci dispiace di non citare tutto e tutti, ma si tratta di ben ventitré interventi -, perché da loro ci giunge non solo una proposta didattica nata dalla collaborazione tra scuola e università, ma anche un invito alla lettura valido per ogni lettore.
Lu trappitu e lli trappitari. Cosimo Occhibianco, “nato a Grottaglie (Ta) il 23/10/1927 da modesta famiglia contadina”, come leggiamo nell’aletta di prima di copertina del suo libro La civiltà contadina con sottotitolo Lu trappitu e lli trappitari, Congedo Editore, Galatina 2009, pp. 224, è un appassionato studioso di storia locale, indagata nei proverbi, negli indovinelli, nelle barzellette, nel lessico, nei soprannomi, nelle arti tradizionali ecc.; è stato docente di liceo ed ora è vice-parroco presso la Parrocchia del Rosario di Grottaglie. Il suo culto – oltre a quello divino, s’intende – va alla civiltà contadina ormai tramontata, rivista con una sorta di nostalgia, di rimpianto del bel tempo andato: “Quanto era bello alla sera, tornando dalla campagna tuttu l’antu [la schiera] tli fèmm’ni, guidato, ta la fattora, cu llu panariéddu ‘nfilatu a llu razzu con dentro nna francata t’alii mmaccati [olive appassite], ttaccati ‘ntlu fazzulettu recitare il Santo Rosario e cantare poi qualche stornellata, per scrollarsi di dosso il peso della giornata e quello della lunga strada fatta a piedi. Arrivate a casa, stanche e trafelate, ma belle e rubiconde in viso, si mangiava con grande appetito quelle fave e verdura cucinate dalla mamma, e scodellate ‘ntlu piattu riali, e dopo essersi scambiate le impressioni della giornata ci si affrettava a sparecchiare la tavola, a lavare il piatto e con la scusa di andare a riempire l’acqua dalla fontana ci si incontrava, furtivamente, col fidanzato, col quale si scambiava, oltre che una bella chiacchierata, anche qualche “vasu a ppizzichicchiu”. Ciò fatto, si ritornava a casa allegre e rincuorate; si andava a nanna e si dormiva tranquille e serene; pronte ad affrontare con grande lena e gioia il lavoro pesante della prossima giornata” (p. 20). Il brano illustra bene lo stato d’animo e direi il sentimento di fondo che ispira lo scrittore e lo induce alla ricerca. Un sentimento destinato, purtroppo, a tenergli nascosta la chiara visione di un passato nel quale i contadini, impegnati, soprattutto in Puglia, nella coltura dell’olivo, furono per lunghi secoli sfruttati prima di essere inesorabilmente annientati dalla civiltà industriale. Tutto questo rimane purtroppo occultato dal facile sentimento della nostalgia, che d’altro canto induce l’autore a riscoprire il passato, a farlo rivivere, attraverso la ricostruzione archivistica, nei suoi aspetti più caratteristici e tipici, a scopo evidentemente promozionale, di promozione del territorio. In questo volume, lo scrittore, coadiuvato da tre amici, Francesco De Geronimo, Domenico Scatigna e Antonio Rombone, ch’egli chiama scherzosamente, unendosi a loro, i quattro Cavalieri dell’Apocalisse” (p. 5), prende in esame l’olio e la cultura che ruota intorno a questo prodotto del lavoro umano nel territorio di Grottaglie, facendone sommariamente la storia millenaria fino ai nostri giorni. All’ “uragano violento delle nuove e svariate tecnologie” (p. 7), Occhibianco oppone una rivisitazione del mondo contadino. Ecco i momenti salienti della cultura dell’oliva: la ‘ntrata, cioè “la fioritura delle gemme che appariva sui ramoscelli d’ulivo (detti capiscioli) verso l’inizio del mese di maggio” (p. 14) e che faceva ben sperare i contadini; la ccòsa (la raccolta) effettuata anticamente entro l’era (aia) ricavata in un perimetro sottostante la chioma della pianta, detto cigghjaru; e infine la vendita all’ingrosso al mediatore–compratore, e al minuto ai cosiddetti ccattevvinni, di molti dei quali Occhibianco riporta il ritratto fotografico formato tessera (pp. 22-23).
Ma i protagonisti del libro sono indubbiamente, come da sottotitolo, lu trappitu e li trappitari. “Lu trappitu (il frantoio) era l’unico luogo adatto per la molitura delle olive” (p. 25). Lo scrittore procede alla descrizione del luogo, che poteva essere ipogeo o sito a pian terreno, e all’elenco degli attrezzi necessari alla lavorazione dell’olio (la basculla, la macina, i fiscoli, i torchi, ecc.). In particolare, Occhibianco definisce i trappeti ipogei come “cattedrali dell’abisso”, di cui i trappitari sono i sacerdoti (p. 5), e paragona questo luogo con qualche enfasi “ad una primitiva catacomba cristiana” (p. 13). Riaffiorano alla memoria le figure di coloro che per un lungo periodo di tempo (da fine ottobre a marzo) ogni anno erano impegnati nella lavorazione del prodotto. Si trattava di una vera e propria chiurma [ciurma] così composta: lu nagghjiru (il caposquadra, fiduciario del padrone), lu sotta nagghijru (il vice capo), lu cuenzu friscu, ossia lu sotta tlu sotta nagghjiru), e lu turlicchju (il garzone tuttofare), molti dei quali venivano dal Capo di Leuca (li pòpp’ti), rimanendo “per tutto il tempo della campagna olearia e per la piantagione del tabacco” (p. 31). Anche in questo caso, il corredo fotografico formato tessera di pp. 28-30, ci fa conoscere i volti di questi “veri sacerdoti dell’olio”, li nagghjiri e li trappitari. Si noti l’uso di termini marinareschi: nagghjiru era il “naùkeros” dei greci, ovvero il nocchiero che aveva il compito di guidare la sua ciurma (chiurma). C’è l’idea, insomma, che entrare in un trappitu era come imbarcarsi e andare per mare per un lungo periodo, alla mercè di un elemento infido (l’olio-il mare) che chissà quando avrebbe restituito alla terra li trappitari.
Il volume prosegue con la presentazione delle principali masserie extramoenia del territorio di Grottaglie (Oliovitolo, del Rosario, Abbadia, Galeasi, Lo Noce, Paparazzo, Curtimaggio, dei PP. Carmelitani, ecc.), tutte dotate di trappeto, per lo più ipogeo, ognuna di esse studiata nelle schede dal titolo “Note tecniche” e “Curiosità archivistica”, nelle quali si descrivono i luoghi, si individuano passaggi di proprietà fino agli attuali proprietari e si fa, insomma, la storia del trappeto; fino ad arrivare ai nostri giorni, ovvero ai moderni oleifici. Anche qui la vena elegiaca tradisce lo studioso: “Ora mentre guardo questo moderno oleificio”, scrive Occhibianco a proposito dell’Oleificio Cantina Sociale Pruvas”, il mio pensiero corre veloce al vecchio trappeto ipogeo, ove si trasferivano, abitando, per diversi mesi (da ottobre fino a marzo) tanti operai… Lì in quel luogo buio e umido, lavoravano a piedi nudi, dormivano poche ore, e mangiavano, al fetore della stalla, insieme con il povero asino, anche lui stanco e trafelato. Quante umiliazioni e sacrifici per poter portare onoratamente un pezzo di pane alle proprie famiglie e poter dare alla società, l’olio dolce, limpido, fino e raffinato, frutto amaro del loro pesante, umile e duro lavoro.
Se forse l’olio di ieri, estratto con mezzi rudimentali e primitivi, poteva essere meno buono di quello di oggi, estratto con tutti mezzi meccanici moderni, certamente però era molto ed infinitamente migliore, perché era impreziosito di tanto sudore, lavoro e sacrifici incomprensibili e impareggiabili” (p. 187). Vale qui un discorso che, se da una parte è teso al rimpianto acritico del passato, dall’altra è volto alla promozione del territorio, da riscoprire nei suoi aspetti di una tradizione che può veicolare tutto, eccetto la violenza dei rapporti di potere del passato e la drammatica condizione umana dei contadini pugliesi, che rimane “incomprensibile” all’autore. Anzi, ci sembra di capire dalle parole di Occhibianco, l’olio antico era migliore perché in esso era contenuto un di più di sofferenza umana. Che ci sia un po’ di candido sadismo in questo metro di giudizio? Del resto è una storia che si ripete anche oggi con gli extracomunitari, lavoratori stagionali ridotti in schiavitù nelle campagne pugliesi per le varie raccolte di pomodori, carciofi, uva, olive, ecc.
Nella parte finale del libro, intitolata Ex frantoi in Grottaglie dal 1900 al 1970 sono elencati e descritti appunto gli ex frantoi siti all’interno dell’abitato di Grottaglie, di cui si indicano i proprietari, quelli antichi e gli attuali – ricorrono sempre le fototessere dei protagonisti -, e la moderna destinazione d’uso: un frantoio diventa ristorante, un altro garage, un altro ancora studio fotografico, ecc. Ahimé, verrebbe da dire; ma ce ne asteniamo per non tediare il lettore. Chiudono il volume “Alcuni cenni di grammatica dialettale grottagliese”, un “Glossario” e la “Bibliografia”, con indicazione degli Archivi frequentati dall’autore e delle opere citate.
NOTA BENE
Con questa segnalazione la rubrica Segnalazioni Bibliografiche compie un anno, nel quale spera di non aver tediato il lettore; e siccome in un anno già è senescente, con la presente noterella si congeda dal lettore e va in pensione. Buona fortuna!