Verso l’eclisse dell’esclamativo?

di Antonio Prete

L’esclamativo: un’asticella che sovrasta un punto. Un segno che raccoglie, di volta in volta, un sentimento: lo stupore, il grido, il richiamo, la minaccia, l’avvertimento, la scoperta, l’annuncio, l’ingiunzione, la paura, l’incantamento, l’esortazione, la sorpresa. E questo per suggerire a chi legge l’arpeggio delle intonazioni, le modulazioni sonore delle vocali, l’enfasi che deve accompagnare l’atto dell’ ex-clamare. E  dare  così voce al patto nascosto che la scrittura ha con l’oralità. Un patto scosso dall’avvento della scrittura. La scrittura, imponendosi, ha allontanato da sé la voce, e con la voce il soffio, il vento, il respiro, insomma il nesso tra la parola e gli elementi della natura.  Si è separata inoltre  dal canto. E da quella poesia  –  immediata voce del sentire –  che apparteneva, in un tempo privo di scrittura, a tutti  (in un passaggio dello Zibaldone Leopardi arriva a dire: “la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura”: Zibaldone, 4347, 21-22 agosto 1828).

Con la scrittura l’intonazione, il giuoco e l’azzardo dei sentimenti sono stati sottratti alla voce, rinserrati in alcuni segni. Segni che devono suggerire al lettore, anche al lettore silenzioso, la ricchezza del suono raggelata nella grafia delle lettere.  

L’esclamativo raccoglie insomma nel suo segno quel che la scrittura, combinando le lettere, i suoni delle lettere nelle sillabe, nella parola, nella frase, ha lasciato al fuggevole e però musicale mondo dell’affabulazione.

L’esclamativo conserva in sé, come in uno scrigno, l’eco di questa perduta oralità, che il lettore dovrà liberare, rianimando così la frase, portando negli interstizi delle lettere la voce, con le sue tonalità, e l’onda del sentire.

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *