Otranto, 14 agosto 1480: il coraggio di una scelta

oprio posto, per creare un mosaico armonioso. Tra le vite degli otrantini che hanno imparato a regolare su scirocco e tramontana pensieri e faccende, spicca quella di Idrusa, il cui monologo occupa esattamente il centro del romanzo, come a creare una dolce congiunzione tra le quattro voci maschili. Idrusa, nome che significa “cavalla da corsa, grondante sudore”, ha gli occhi grandi e la pelle bianca, ed è la donna più bella di Otranto. Gli uomini le passano gli occhi dalla testa ai piedi e questa figura “fatta di arcobaleno” si stringe in un senso della felicità rivelatore dell’eventualità che “anche le cose più amate sono legate ad un tempo senza ritorno”. Idrusa, in fondo, è felice solo per un istante, nell’oscurità della sua camera da letto, con gli occhi fissi nel buio ad ascoltare un altro respiro. Per tutta la vita aspetterà qualcosa che somigli a quel momento, “ma felici si è solo per qualche attimo, e in un modo del tutto imprevisto”. Idrusa non è come le altre otrantine; è fatta di un coraggio di vivere che la rende diversa, vibra di un’audacia disarmante che le consente di non tremare afferrando i polsi dei morti distesi nella cattedrale, per poterli lavare prima della sepoltura. Non piange Idrusa, non piange mai. Non piange lei e non piangono gli altri eroi che, con le mani legate dietro la schiena, risalgono curvi il colle della Minerva in quella mattina del 14 agosto 1480. Nella testa un canto straniero, risuonato tra le pareti della prigione la notte prima, una notte che doveva essere breve e invece non finiva mai. Il canto di un soldato saraceno che, forse, per quella notte, si era scordato della guerra. Il turco cantava alle stelle e si immalinconiva perché le stelle restavano lassù. Con quel canto nella testa, Nachira, il personaggio al quale è assegnato il resoconto del martirio, marcia insieme agli altri condannati fino alla cima del colle, “col cuore come un’arancia spremuta”. Il sole sta sorgendo e illumina di un rosso violento un’Otranto che presto si bagnerà del sangue dei suoi abitanti. Ma Nachira non pensa a questo, non pensa alla morte. Pensa che vorrebbe suonassero le campane della cattedrale. Ma le campane tacciono. Si sentono solo le cornacchie marine e poi, sulla collina, appare il boia. Nachira, però, volge lo sguardo altrove. Alla campagna, agli oleandri bianchi e rossi che allungano i rami nel cielo. Allora cosa resta della vita? Un pugno di colori e una campagna illuminata. Quegli oleandri del colle della Minerva furono l’ultima cosa che passò dentro gli occhi di Nachira.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 13 agosto 2022]

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