Francesco Politi germanista e traduttore

            Francesco Politi occupa una posizione particolare nel panorama letterario, e più ampiamente culturale, salentino del Novecento. Politi è stata una figura poliedrica, che ha svolto un’attività multiforme e in luoghi diversi e lontani tra di loro. Infatti egli è stato poeta (e ricordo di avere incontrato il suo nome come autore di componimenti in versi già sui giornali leccesi degli anni Trenta), germanista, traduttore, saggista, docente (nelle scuole superiori e nell’università), conferenziere, operatore e mediatore culturale. Tanti aspetti, quindi, ma quello che più emerge in questo volume, anche dalle pagine di Valli e Marti,  è quello del traduttore. Anche qui però occorre fare, a me sembra, un’ulteriore distinzione, perché l’attività  del traduttore si può suddividere in due fasi: la prima, di tipo più tradizionale, anche se sempre di alto livello; la seconda, che copre grosso modo gli ultimi due decenni di vita di Politi, più inventiva, più creativa, per certi versi ancora più sorprendente. Ed è proprio verso questa produzione, se non mi sbaglio, che si rivolge l’attenzione dei due studiosi e il loro apprezzamento particolare.

            Ma andiamo con ordine e passiamo in rassegna ora il contenuto dei vari scritti. E vorrei partire proprio dalla postfazione di Montonato, Con le ali più grandi del nido, che costituisce un profilo biografico e intellettuale di Politi con particolare riferimento ai rapporti col suo paese, Taurisano, la sua heimat, per usare un termine tedesco che, come ci spiega Marco Politi nel suo ricordo del padre, non ha un corrispondente preciso in italiano, “perché – scrive – Heimat è patria, casa, focolare tutto insieme e al tempo stesso nessuna di queste parole presa singolarmente rende il termine nella sua pregnanza. Heimat è al fondo quel senso di calore che emana dal luogo delle proprie radici” (p. 19).

            Montonato ripercorre dunque le varie fasi della vita di Francesco Politi che nacque il 14 settembre 1907 a Taurisano da Luigi Agostino, artigiano edìle, e Concetta Baglivo, insegnante elementare, in via Vanini, come specifica. Ma egli non si limita a fornire i puri dati biografici e anagrafici, bensì ricostruisce anche  accuratamente il milieu sociale ed economico del paese nel periodo in cui si colloca la nascita dell’intellettuale, la stessa topografia della Taurisano di allora, la genealogia della sua famiglia. Dopo le scuole elementari, il giovane Politi si allontana dal suo paese e si laurea in Lettere, insegna nei Licei di varie città (Torino, Roma, Bressanone) e poi intraprende la carriera di docente-diplomatico, come docente ospite di lingua e cultura italiana nelle università delle sedi diplomatiche e direttore di Istituti di cultura italiana in Romania, a Vienna, Berlino, Monaco di Baviera. Nel 1943 si sposa con Ursula Schaarsmidt, che diventerà anch’essa docente di Filologia germanica nell’Università di Lecce, e dal loro matrimonio nascono Marco e Alessandro. 

            In questi anni si impegna soprattutto come promotore della cultura e della lingua italiana all’estero, pubblicando manuali di italiano per stranieri, come Imparare l’italiano, una gioia (1938), volumi su autori e opere della letteratura tedesca, traduzioni poetiche apparse in pubblicazioni prestigiose e note, come Orfeo. Il tesoro della lirica universale (Firenze, Sansoni, 1949; VI ed. 1974) e saggi vari su classici italiani (Montonato dà anche una bibliografia essenziale alle pagine 100-101, che però rende bene l’idea della varietà e vastità dei suoi interessi).

            Nei primi anni Ottanta ritorna nel Salento, come docente di Letteratura tedesca nella nostra università, e riprende anche i rapporti con la sua Taurisano, con i suoi conterranei, che definiva “congiunti di terra e di sangue”. Trova nuovi amici come Montonato e altri che lo coinvolgono nelle iniziative di questo piccolo centro salentino così attivo in campo culturale. E la prima occasione di rientro ufficiale è costituita dalle celebrazioni vaniniane del 1985, allorché Politi tenne una conferenza su Il Vanini di Hölderlin. L’anno successivo incomincia la collaborazione a “Presenza taurisanese”, su cui è presente con articoli, traduzioni, poesie per ben sedici anni fino all’anno della morte avvenuta a Roma il 20 aprile 2002.

            In questi anni si collocano altre manifestazioni alle quali Politi partecipa sempre con impegno e passione. Montonato ricorda l’epigrafe per Vanini scritta dal professore che doveva essere collocata sulla facciata della casa del filosofo e che poi è stata posta alla base del busto in bronzo che si trova all’ingresso del Liceo scientifico di Casarano a lui intitolato. È un’epigrafe in cui, come nota giustamente Montonato, si mette in rilievo la taurisanità e al tempo stesso l’universalità del filosofo, cosa che vale indubbiamente per lo stesso Politi. Nell’incipit infatti dice così:

Da cittadino taurisanese

nato in questa casa nell’anno 1585

Giulio Cesare Vanini

affrontando a Tolosa la morte nel 1619

divenne

attraverso il supplizio e la fama

cittadino del mondo (p. 105).

            Ancora, nel 1988 venne assegnata a Politi e allo storico della filosofia Antonio Corsano, altro illustre taurisanese, una medaglia d’oro da parte del Comune per i meriti acquisiti in campo culturale, e quasi per ringraziare il suo paese il professore propose l’istituzione di cinque borse di studio per universitari di Taurisano intestate ai suoi genitori che vennero regolarmente assegnate dal 1991 al ’96. Nel maggio 1992, infine, in occasione dei sette anni di collaborazione a “Presenza” organizzò un’altra manifestazione “Primavera 92”, che comprese una sua lezione magistrale sul Tannhäuser, un concorso per traduzioni da poeti spagnoli e un concerto musicale.

            Negli ultimi anni aumentò questo amore per la piccola patria e per la sua lingua, il dialetto salentino. E a questo proposito Montonato riporta un brano molto significativo che vorrei leggere anch’io:

La collaborazione a “Presenza” ha mobilitato, ravvivato, potenziato in me la coscienza e l’amore della dialettalità, e del Politi vagante e soggiornante per lunghissimi anni tra connazionali da noi remotissimi e tra popoli stranieri, ha fatto un Politi sempre più salentino […] e mi ha fruttato un’imprevedibile messe di composizioni dialettali su testi di ogni nazione, composizioni delle quali sono particolarmente orgoglioso, perché penso (anche se fosse soltanto un’illusione) di aver saputo più volte mostrar ciò che potea la lingua nostra, il possente e splendido rusciaru (p. 105)

            Ecco, se l’articolo di Montonato ci mostra soprattutto questo aspetto di Politi, l’aspetto salentino, paesano, terragno, quello di Titus Heydenreich ne mette in evidenza quello cosmopolita, da cittadino del mondo, insomma, per usare l’espressione dello stesso professore che figura nell’epigrafe per Vanini. Lo studioso tedesco infatti rievoca il periodo trascorso da Politi a Monaco di Baviera come direttore dell’Istituto italiano di cultura, periodo che va dal 1953 al 1964. Il professore aveva già operato a Vienna, a Berlino, era stato lettore all’Università di Marburgo, in due periodi diversi, nel 1942, e poi dopo la guerra, nel ’49, ma nel 1953 appunto venne incaricato dal Ministero degli Esteri italiano di fondare un Istituto di cultura italiano a Monaco di Baviera. Cosa che Politi puntualmente fece, dal momento che nel maggio dell’anno seguente, il 1954, si inaugurò l’Istituto con una importante manifestazione alla quale intervenne il Ministro della Pubblica istruzione e nel corso della quale ci fu una conferenza su Benedetto Croce da poco scomparso e lo stesso Politi tenne una relazione su Pirandello scelto quasi come simbolo dei rapporti culturali italo-tedeschi nel Novecento.

            E in effetti in questi anni Politi si impegnò moltissimo per favorire e sviluppare ulteriormente questi rapporti. Fece amicizia con vari scrittori tedeschi come Hans Carossa e quando, nel 1956, questi morì, pubblicò un volume Testimonianza a Carossa, con interventi di germanisti italiani e sue traduzioni. Nel 1962 fece stampare ancora un altro volume in tedesco che comprendeva saggi su classici, antichi e moderni, della letteratura italiana, da Dante a Goldoni, da Carducci a Pirandello, e traduzioni da Petrarca e Michelangelo. Lo spirito con cui svolgeva questo lavoro era proprio quello del mediatore culturale, come egli stesso scrive nel suo curriculum vitae in un brano molto significativo citato da Heidenreich e che vorrei leggere:

Da difensore, rappresentante, mediatore (mi si passi l’espressione di George) inter nationes, con la premura di diffondere tra gli scolari e gli studenti la conoscenza e l’amore per quella Germania dello spirito e dell’umanità, alla quale gli italiani hanno guardato da ogni punto di vista , così come i tedeschi  avevano guardato all’Italia ― secondo le parole di Joseph  Weinheber ― “Italia dell’anima tedesca” (p. 30).

            E alla fine l’autore dell’articolo dà a Politi un importante riconoscimento sul lavoro da lui svolto a Monaco: “Grazie alla forza della sua apertura mentale e all’entusiasmo della sua iniziativa egli produsse e lasciò dietro di sé più di quanto  ci si aspettasse dal suo incarico. Il suo bilaterale programma culturale produsse effetti positivi  che durano ancora oggi” (p. 30).

            Più incentrati, ovviamente, sull’aspetto familiare di Francesco Politi, chiamato Ciccio dagli amici come ricorda affettuosamente Alessandro, sono gli interventi dei figli che rievocano episodi, abitudini familiari, dai quali ciò che risalta maggiormente è la vicinanza del padre nella loro educazione, la sua capacità di trasmettere loro l’amore profondo per la cultura, per i grandi classici (che ha dato, come tutti sappiamo, ottimi esiti). Marco addirittura scrive che egli era direttamente coinvolto dal padre, fin da bambino, nelle sue traduzioni a causa della conoscenza del tedesco che era la sua lingua madre. D’altra parte Francesco, come dice Alessandro, trasmetteva loro anche quella capacità di commuoversi davanti ai testi, davanti cioè ai sentimenti umani, alle passioni, ai valori che testi classici di ogni tempo e di ogni nazione contengono. Ma su questo particolare aspetto della personalità di Politi si intratterrano loro stessi tra poco.

            E veniamo ora ai due saggi più consistenti presenti nel volume, a quelli di Donato Valli, il primo in apertura, e quello di Mario Marti, posto in chiusura. Entrambi gli studiosi, entrambi questi maestri, ai quali tanto deve la nostra cultura, la stessa società salentina di quest’ultimo mezzo secolo, si occupano, come accennavo all’inizio, del Politi traduttore. Tra i tanti aspetti dell’opera e dell’attività di Politi privilegiano cioè quello del traduttore. E non, anche questo lo dicevo poco fa, del traduttore in italiano di testi classici della letteratura tedesca, della Lirica del Minnesang, di cui Politi offrì uno studio e una versione rimasti classici nel 1948 con l’editore Laterza di Bari, o ancora di Goethe, di Schiller, di cui nel 1988 tradusse la Maria Stuart, e di tanti altri autori, ma l’uno, Valli, del traduttore di testi della letteratura mondiale in dialetto salentino e l’altro, Marti, del traduttore di Orazio, cioè di un poeta latino. Infatti essi prendono in esame gli ultimi due volumi pubblicati da Politi, e cioè rispettivamente: Poeti del mondo in dialetto salentino (Congedo 1996) e Orazio vivo (Congedo 1993). Ci sarà pure una ragione per questa scelta?

            E in effetti una ragione c’è e sta nel fatto che entrambi ritengono questa produzione, che risale grosso modo all’ultimo ventennio di vita di Politi, più originale, più inventiva rispetto alla precedente che rientrava in un ambito più tradizionale, e anzi di particolare spicco nel panorama letterario di questo periodo, per quanto riguarda il Salento e la poesia dialettale in genere.

            Donato Valli, quindi, si sofferma sul volume Poeti del mondo in dialetto salentino e lo fa con una particolare competenza in questo specifico campo che gli viene dall’aver studiato  per primo la poesia in dialetto salentino dell’Otto-Novecento, fino ad averne offerto una storia nel 2002, attraverso i suoi massimi rappresentanti: da Francesco Antonio D’Amelio a Giuseppe De Dominicis, da Giuseppe Marangi a  Raffaele Pagliarulo, da Enrico Bozzi a Oberdan Leone, fino ai contemporanei Nicola De Donno, Pietro Gatti, Erminio Caputo, i quali ultimi appartengono alla generazione di Politi e si fecero conoscere soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del Novecento.

E infatti uno dei fattori di questo ricorso al dialetto nelle traduzioni da parte di Politi, come egli stesso chiarisce nella prefazione a Poeti del mondo in dialetto salentino, intitolata Come è nato il presente volume, è proprio l’influenza esercitata su di lui dal magliese De Donno, del quale lo colpì in particolare la raccolta Mmumenti e ttrumenti (Lecce, Manni, 1986), con una presentazione di Maria Corti. In quel periodo in effetti ci fu un autentico revival del dialetto in poesia sia in campo nazionale che nel Salento con le figure che ho citato prima di assoluto rilievo nel panorama italiano, tanto è vero che compaiono anche in alcune delle principali antologie di questo genere di poesia. L’altro fattore fu il riavvicinamento alla sua piccola patria, di cui s’è parlato, e la conseguente “passione del nativo dialetto”. Il terzo fattore è stato il sodalizio e le sollecitazioni che gli venivano da parte dell’amico Montonato a collaborare a “Presenza” con articoli e versioni.

Proprio nella premessa di uno dei Quaderni di Presenza taurisanese, in uno dei “Grani”, dedicato a Villon, malvivente e poeta, apparso nel dicembre 1994, Politi, anticipando l’uscita di quel volume, parla di questa sua scelta:

È una fatica, questa mia, che si è protratta per alcuni anni, sostenuta dal proposito di porgere un tributo d’affetto al natio Salento, alla sua lingua che la mente m’innamora e a cui devotamente servo con l’animo di quel poeta austriaco del nostro secolo, Josef Weinheber, il quale inneggiava alla propria favella nazionale esordendo con le parole ‘Spracher unser’ (Lingua nostra), sacralmente ricalcate sull’incipit del ‘Vater unser’ (Padre nostro). Non stupisca questo mio ardore per la terra e la lingua delle mie origini: sono vissuto, fin dalla prima adolescenza e per lunghissimo tempo, in contrade italiane e straniere remote dalla mia, e mi sono, sia pure un po’ alla rovescia, jaufrérudelizzato, sospirando, lui Rudel la sua sconosciuta e sognata Melisenda, io la mia fin dall’infanzia nota, vissuta – ma poi per tempi di lunga durata sottratta alla mia vista e alla mia vita quotidiana – Terra Madre. Il ritornello di Jaufré Rudel e il mio era lo stesso: “Amore di terra lontana, / per te tutto il core mi duol”. Offrirò, dunque, nel volume sopraccennato quello che ho saputo trapiantare, e tirar su più o meno felicemente, di poesia straniera (p. 5).

            Il libro, dunque ― ci informa Valli ― “è un’antologia comprensiva di 37 autori, dei quali venti sono tedeschi, tre francesi, due spagnoli, due indiani; i restanti dieci appartengono alle seguenti nazioni: Arabia, Messico, Norvegia, Svizzera, Russia, Persia, Cina, Italia, Israele, Austria. Dieci sono i componimenti anonimi di varia provenienza” (p. 10). Da un punto di vista cronologico, si va invece dai secoli IV e V a. C. a cui risalgono certi antichissimi testi indiani, nonché dal Libro dei Pensieri della Bibbia (III sec. A. C.) ai latini (Marziale), dai secoli IX-XII, ai quali risalgono i carmi anonimi dell’Edda norvegese,  e XII-XIII in cui si colloca in gran parte la composizione delle Massime della scuola salernitana, al Seicento (Quevedo, La Fontaine), a fine Ottocento con Carducci (del quale è presente la versione della famosissima Pianto antico, Chiantu te sire) e anche al Novecento.

Va detto che quelle di Politi non sono in assoluto le prime versioni di testi poetici stranieri o italiani in dialetto salentino. Già alla fine dell’Ottocento Giuseppe De Dominicis traduceva Dante, Baudelaire, Hugo, Heine e altri e una sezione della raccolta complessiva delle sue poesie è intitolata appunto Furestere. Ma nessuno finora, come Politi, aveva fatto questo lavoro con tale ampiezza e con tanta coscienza letteraria.

Gli argomenti quindi sono eterogenei ma sono accomunati “da una profonda consapevolezza e da una sorprendente padronanza della struttura poetica, costantemente bilanciata tra umori nostrani paesani e raffinatezze letterarie” (p. 10).  In questo lavoro, Politi procede, come egli stesso chiarisce  “a una autentica re-invenzione dei testi”, non soltanto perché essi vengono “rimanipolati e arricchiti di elementi e ingredienti sostanziali, cioè consapevoli, originali, ma soprattutto perché essi riappaiono concertisticamente, meglio ancora, orchestralmente trascritti, così da cavarne una partitura che […] diviene  un qualcosa che, musicalmente, si direbbe uno scherzo”. Cioè insomma la traduzione-reinvenzione di Politi amalgama tutti questi testi così diversi e lontani tra loro in base al suo personale estro, al suo “ghiribizzo”, per usare un termine usato dallo stesso Politi per le versioni da Orazio, che ci indica bene la direzione del suo lavoro.

            E infatti una delle tecniche usate dal traduttore è la contaminazione linguistica. A volte lingua e dialetto coesistono, come nel Preambolo alle Massime della Scuola salernitana:

Leggemmo in codici

d’età lontane  

il Fior di Massime

Salernitane.  

Eccone dodici

concise e acute:

Dodici Apostoli

della Salute.

E ccu tte fàzzane  

puru cchiù effettu  

te le manìpulu,

te le mpurpettu  

sapuritissime

propiu in dialettu (p. 11);

a volte si assiste a un gioco linguistico, una sorta di pastiche, che ricorda la tecnica del “pulito” o “poleto” di cui parlava De Donno a proposito di certe composizioni del poeta dialettale leccese Enrico Bozzi, il Conte di Luna. Un esempio davvero spassoso è costituito da un brano della Lacrima Christi del poeta tedesco Rudolf Baumbach, in cui Politi fa il verso a un tedesco che vuole parlare in “pulito”, nobilitando l’espressione dialettale, con l’uso di termini tedeschi, italiani, spagnoli, e dialettali:

…”Subbito, nnucire

audru rsulu, signore puticaru!

E bitte, bitte, moi štessu ticire

como chiamarse cuisto vino raro.

Io lo sentire como fuego vivo

passare nzillo nzillo nţra lle vene:

rregalo grande te la Provitenzia,

in tutto il mondo primo posto tiene!” (p. 13).

Insomma, come si sarà capito, quella di Politi è sempre una traduzione di tipo inventivo, non letterale, non ripetitivo.

            Poi Valli si sofferma su alcuni testi tradotti, come una composizione di Goethe, Rosellina campagnola, “veramente avvincente – scrive – per la leggerezza e saporosità con la quale il dialetto si adegua al trasporto ritmico del testo originario” (p.13). E ancora sulla traduzione delle “Quartine” del poeta persiano Omar Khayyâm, di cui sottolinea la straordinaria varietà metrica che conferma la perizia tecnica e l’estro creativo di Politi. Per quanto riguarda Villon invece mette a confronto la traduzione di Politi con quella di un altro illustre traduttore salentino, Vittorio Pagano, e mentre in questa prevalgono la letterarietà, l’artificio della parola, in quella di Politi emergono la spontaneità, l’aderenza allo spirito del maledettismo villoniano, quasi con una sorta di inversione nel rapporto tra vita e arte tra i due traduttori. Perché, mentre “il ‘maledetto’ Pagano trovava nella consolazione della forma poetica la compensazione del malessere del vivere; il raffinato e ‘civilissimo’ Politi trovava nel calore affettuoso del dialetto le tracce indelebili di una umanità ch’era l’anima della sua patria lontana e sempre desiderata” (p. 16).

            Alla fine del suo scritto accenna anche a Orazio vivo che è “il libro che più esalta le qualità del Politi traduttore” per la capacità di saper rivivere lo spirito, l’anima dell’antico poeta latino. Valli arriva a definire Politi un Orazio redivivo, perché , scrive,  “ama le cose che Orazio ha amato, eredita la sua aurea mediocritas, gode delle generose bellezze della natura, delle donne, dei paesaggi, non ha rancori, ma sempre un’anima sorridente e solare come le primavere e le estati salentine” (p. 17).

            E proprio l’Orazio vivo, pubblicato da Politi nel 1993, è al centro dell’attenzione di Mario Marti, il quale confessa che questo libro l’aveva impressionato, anzi colpito quando lo lesse al punto da dedicargli un articolo, poi raccolto nel suo volume Storie e memorie del mio Salento (Congedo, 1999), e che considera la sua opera più riuscita. Con la consueta acribia e lucidità, incomincia quindi ad esaminare la struttura del volume, sostenendo che non si tratta di una “raccolta”, ma di una “scelta”, finalizzata a proporre un Orazio vivo e attuale ancora oggi. E infatti Politi dall’ampia produzione del poeta latino sceglie la tematica eterna della vita e la cala nella sensibilità odierna: “la fugacità degli anni e della giovinezza, le piccole gioie del desco; le conquiste e le delusioni dell’amore e dell’amicizia; la bellezza del creato, l’ineluttabilità del destino” (p. 64).

            Si tratta di un libro consapevolmente “costruito”, con un suo inizio (un carme ben augurante) e una sua fine (l’epistola a Bullazio, viaggiatore in cerca della felicità). In mezzo ci sono ventuno componimenti latini con la traduzione a fronte. Ecco, ma di che tipo di traduzione si tratta? A questo proposito, Marti parla di una “metamorfosi stilistica attualizzante”, cioè di una traduzione assai libera e inventiva che cerca di rendere attuale la poesia di Orazio attraverso la lingua, lo stile, la versificazione, e che cerca quindi di reinventarla. Non a caso parla di Politi traduttore come poietès, come facitore, fabbro. D’altra parte, anche lo stesso Politi definisce le sue traduzioni, “sui generis”.

E, per dimostrare questa sua tesi, Marti conduce una strenua analisi tecnica che qui ovviamente non è possibile seguire in tutti i suoi passaggi e negli innumerevoli esempi che porta a sostegno di questa tesi. Mi limito perciò ai punti sostanziali. Intanto  nota una chiara tendenza da parte del traduttore ad ampliare il numero dei versi dei componimenti, a volte anche di parecchio. Poi, per quanto riguarda le Odi, mette in rilievo la varietà della versificazione, che dimostra la conoscenza e la perizia del traduttore, come pure l’uso delle ripetizioni che dà al testo latino un tono più affabile e domestico. E, come esempio, dà la traduzione di A Neera che tra poco sarà letta integralmente

            Tutti questi espedienti e altri ancora si moltiplicano nella traduzione dei Sermones, delle Satire, dove ha modo di manifestarsi ancora più “il brio, la spigliatezza, il populismo giocoso di Politi, con la sua arguta e pirotecnica capacità metamorfica” (p. 70). E di questa capacità Marti offre un vero campionario. Il vertice, a suo giudizio (e davvero non si può essere d’accordo con lui),  lo raggiunge nelle prime due Satire, Mai contenti! mai sazi! e Per soli uomini. E di queste traduzioni lo studioso analizza, in particolare, i due elementi più significativi, la versificazione e l’incastonatura dialettale. E in effetti sono proprio questi due elementi di tipo formale e non contenutistico che permettono quella reinvenzione attualizzante e scatenano l’estro, il “ghiribizzo” di Politi. Vediamo allora qualche esempio.

            Per quanto riguarda la versificazione, ad esempio, in Ambubaiarum collegia (Per soli uomini), Politi inserisce delle strofette di agili ottonari sempre legati da rima, in un contesto di endecasillabi e settenari, ottenendo una sorta di straniamento che richiama altri autori e altre epoche della storia letteraria mondiale (a Marti richiama un Lied di ispirazione goethiana):

Nella neve quatto quatto

va per lepri il cacciator;

gliela metti lì sul piatto

e toccare non la vuol.

Cacciatore è l’amor mio…(p. 73) .

Ancora più sorprendente è l’improvviso e imprevedibile inserto dialettale, che si trova in queste composizioni.  Inserto che può essere il salentino, in omaggio ancora alla sua terra, ma anche il romanesco, il napoletano, il barese parodizzato. Ad esempio, il romanesco è presente nella prima satira:

“Beati i commercianti!”

sospira sempre il vecchio caporale

sfessato e scartellato;

ma il commerciante non è più beato;

se la nave balla alla burrasca  

lo senti protestare tale e quale:  

Mejo, mejo er sordato!

Co quattro corpi, o mori defilato

o hai la vittoria in tasca” (p.71).

Ma è soprattutto il frammento tradotto col titolo Roma-Brindisi: sorpresa di un viaggio, dove più si scatena appunto il “ghiribizzo” di Politi. Qui infatti si trova il napoletano:

Io stesso, per passar dal fumo al fuoco,  

a un fuoco ed una fiamma più affettuosa,

m’avvicinai  e m’intesi a poco a poco

co nna bella uagliona prošperosa” (Orazio vivo, cit., p. 143);

una sorta di barese come può essere parodizzato da un leccese:

Il giorno appresso il sole ricompare,

però la strada è peggio, è una šchifezza:

ci avvicinammo chiane chiane a Bàare,

paradiso del pesce, sua ricchezza” (p. 144);

e infine il dialetto salentino di tutto il brano finale (p. 147). Siamo di fronte insomma, come si vede, a una sorta di pastiche linguistico, di plurilinguismo, secondo un preciso filone della nostra letteratura, che dimostra ancora una volta l’alta coscienza letteraria di Francesco Politi.

[In A.L. Giannone, Modernità del Salento. Scrittori, critici, artisti del Novecento e oltre, Galatina, Congedo, 2009]

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