Segnalazioni bibliografiche IV

Michele Saponaro. Strano destino quello di alcuni scrittori: in vita autori di successo, in morte si inabissano nelle tenebre come fiumi carsici nelle viscere della terra, nascondendosi alla vista degli uomini, per riaffiorare poi alla luce del sole alla prima buona occasione, un anniversario, per esempio, al quale gli studiosi sono molto sensibili. Per merito degli studiosi, in effetti, riaffiorano, e noi dobbiamo ringraziarli perché sono loro a donarci il piacere della riscoperta.

Il 2009, oltre che l’anno futurista, è anche l’anno di Michele Saponaro (1885-1959), narratore, biografo e scrittore di teatro molto prolifico e di buon successo nella prima metà del Novecento, nato a San Cesario di Lecce e sepolto al Monumentale di Milano. Chi ci va per affari, trovi il tempo per fargli visita! Di Saponaro il lettore non frequentatore di biblioteche aveva perso le tracce da moltissimi anni. L’unico suo libro in circolazione, Adolescenza, fu ristampato nel lontano 1984 da Mario Congedo Editore, prima e dopo più niente. Ora, due docenti di liceo, Maria Pia del Cuore e Lina Mairo, pubblicano di Michele Saponaro un’antologia di Racconti e Ricordi, Percorsi Meridiani, San Cesario di Lecce 2008, pp. 157. Questo libro è rivolto innanzitutto ai docenti, perché avvicinino gli studenti ad uno scrittore di un passato neanche poi tanto lontano. I dodici racconti che vi sono contenuti – i primi sei e l’ultimo autobiografici, gli altri affidati alla terza persona di un naturalismo regionalistico rivissuto coi toni di una forte partecipazione sentimentale -, infatti, sono incorniciati ciascuno da un breve Invito alla lettura iniziale e da un Laboratorio finale, e commentati da un puntuale apparato di note a piè di pagina. Il libro, dunque, funziona bene come palestra di esercizio letterario per studenti di scuola media e media superiore. Tuttavia, data la penuria di scritti di Saponaro in circolazione, esso costituisce un’ottima occasione offerta a tutti i lettori per conoscere questo scrittore in una delle sue prove migliori (i racconti sono scelti da un’opera della tarda maturità dell’autore, Racconti e ricordi appunto, SEI, Torino 1957). Saponaro è uno scrittore vero, dallo stile fine e delicato, che merita di essere letto ancora da un pubblico vasto. Egli è vissuto in un’età difficile – come probabilmente è ogni età – in cui l’ideologia con annessa retorica ha spesso avuto la meglio sulla vita. Lo stile di scrittura da lui adottato per raccontare il suo tempo è tutto in queste parole: “Le meravigliose avventure della fantasia non hanno bisogno di un palcoscenico o di uno scenario eccezionali. Nella formazione del nostro mondo fantastico e ideale spesso han lasciato maggiore impronta e più durevole ombra un muro, un albero, un cancello, una finestra, una pietra solitaria, che non le città, i monumenti, i monti che ci han dato tante volte spettacolo”(p. 48).

Parole sante, da sottoscrivere senz’altro, e sulle quali moltissimi scrittori contemporanei dovrebbero a lungo meditare.

Maurizio Nocera poeta. In solo trecento esemplari numerati e firmati dall’autore, Maurizio Nocera pubblica La contrada del poeta più altri poemetti e poesie sparse, Il Raggio Verde Edizioni, Lecce 2008, pp. 136. Si tratta di una raccolta poetica dedicata “a Mario Marti / Maestro di vita e di lettere”, in cui si dispiega la disposizione lirica ed elegiaca di Nocera, non aliena da concessioni estetizzanti. Questo non gli vieta di affilare punte polemiche, d’una polemica civile, con cui infilzare il Salento, percorso in lungo e in largo, soprattutto nella sua parte meridionale. Il Salento è visto come “grembo materno, utero e tomba” (p. 15) di chi vi rimane, terra dove si consuma l’ “atroce destino” (p. 39) del poeta. In effetti, la poesia di Nocera è poesia dei luoghi conosciuti e amati, alla lunga odiati e poi amati di nuovo: Lecce, in primo luogo, “città bigotta” (p. 25), “barocca e fascista” (p. 26), “menzognera, traditora, vigliacca, coccodrilla” (p. 27); Otranto di Punta Palascìa (in copertina: il faro di Capo d’Otranto), “nostra madre Hidruntum / utero d’Oriente e d’Occidente pure (Il fanalista d’Otranto p. 66), e  Gallipoli coi suoi bastioni aperti sul tramonto: “Il mare di qui è forziere antico / spiaggia meraviglie e conchiglie / ancorette policrome e fregi omerici… (Crepuscolo nel mare di Gallipoli, p. 80); e poi Galatina, “illustre città sonnecchiante” (Illuminato a Galatina, p. 115, in morte di Carlo Caggia), e Casarano, “terra d’ulivi” (p. 125), dentro il cui ventre è possibile dormire, ecc. Poesia di luoghi, dicevo, ma poesia anche di uomini, poiché quasi ogni componimento è dedicato ad un amico, poeta, artista, uomo di cultura, ecc., qualcuno vivo, i più ormai scomparsi: Antonio Verri, Edoardo De Candia, Francesco Saverio Dòdaro, Totò Toma, Norman Mommens, Patience Gray, Claudia Ruggeri, Augusto Benemeglio, Ernesto Barba, Carlo Caggia, Carmelo Bene, ecc., uomini e donne con cui si prosegue una civile conversazione secondo i ritmi di un respiro dialogico nel quale risulta fondamentale la presenza-assenza di un interlocutore. Luoghi, dunque, e uomini (coloro che non conoscono il Salento troveranno in fondo al volume sette pagine di Note esplicative): entro questi confini si accende il canto lirico, elegiaco e polemico di Maurizio Nocera, e noi lo ringraziamo per questo.

Il ritorno di Dioniso. Ne Il ritorno di Dioniso. Il dio dell’ebbrezza nella storia della civiltà occidentale, Galatina, Congedo Editore 2008, ristampa della 1° edizione 2003, pp. 168, Paolo Pellegrino studia il “tarantismo come rito di rinascita dalle origini remote, trapiantate e innestate in ambito cristiano” (p. 26), che si inscrive “nel più ampio contesto dei rapporti tra mito e razionalità occidentali” (p. 26). “Il tarantismo – egli dice – è un episodio dello scontro millenario tra mito e ragione” (p. 24), oggi tanto più evidente in quanto siamo “in un periodo di esasperata razionalità tecnologica” (p. 27). L’assunto principale del libro, dunque, è che “il tarantismo non sia un inutile “relitto” e che anzi in esso sia depositato un prisma che imprigiona i colori della nostra antica identità collettiva” (p. 27). “Da questa prospettiva, l’attuale revival nazionale della tarantella e in particolare della pizzica pizzica, musica e danza che riesce ad accendere i sensi e le emozioni delle folle, si pone come una sorta di ritorno di Dioniso e della cultura che gli appartiene” (p. 28).

Il libro, dopo l’Introduzione (pp. 7-29), si articola in tre capitoli. Il Capitolo I reca il titolo Caratteri generali del mito (pp. 33-47). Dopo una disamina delle varie versioni del mito e del conflitto delle interpretazioni, Pellegrino rivendica il suo “carattere conoscitivo”: “di fronte al mistero del nostro essere e dell’accadere cosmico, esso riesce a dare una risposta alla domanda: che cosa? Come mai? Perché? Si tratta naturalmente di una risposta fornita non dalla ragione che indaga rigorosamente, ma dalla fantasia…” (pp. 45-46).

Il Capitolo II è intitolato Il mitologema di Dioniso (pp. 49-105). Mitologema è parola greca che significa “racconto mitico”. Questo mitologema, dice Pellegrino, “qui si assume essere, per sentieri accidentati e per intersezioni tra culture diverse e in vari tempi storici, al centro e al cuore del fenomeno del tarantismo” (p. 52). Ora, non c’è lo spazio in questa recensione per raccontare tale mitologema in tutte le sue varie forme. Tuttavia, riassumendo, dal racconto mitico di Dioniso deriva che questi altri non è che “l’antesignano di Cristo”. Scrive Pellegrino: “Quanto quest’accostamento di Dioniso a Cristo, fino alla completa risoluzione dell’uno nell’altro, non sia appannaggio esclusivo dell’ala poetica di Holderlin, frutto di un azzardato volo pindarico, o del sogno visionario di Nietzsche, ma possa costituire il risultato di un’operazione sincretistica e di contaminazione tra riti pagani, diffusi soprattutto nella Magna Grecia, e culto cristiano di più spiccata accentuazione paolina – quanto quest’accostamento, si diceva, sia pertinente in sede storica, e non solo letteraria, è in parte la tesi che qui si intende sostenere,  con specifico riferimento a quel crogiolo di esperienze diverse in cui fermenta il fenomeno del tarantismo” (pp. 55-56).

Segue il Capitolo III, L’inestricabile intreccio tra mito e tarantismo (pp. 107-162). L’obiettivo polemico è qui Ernesto De Martino de La terra del rimorso: “De Martino ricercherà la genesi e la persistenza della questione meridionale nell’accumulo di sacche di superstizione religiosa, fattore di sottosviluppo civile e di mancata intraprendenza economica” (p. 113); “De Martino pensa illuministicamente che tarantismo et similia sono residui superstiziosi alle radici dell’arretratezza meridionale…” (p. 156);  a cui Pellegrino contrappone l’interpretazione “mitica” di Nietzsche de La nascita della tragedia: “Nietzsche è convinto che “senza mito ogni civiltà perde la sua sana e creativa forza di natura”, per cui scorge in un passato immemoriale le origini di alcuni fenomeni, il cui destino si colloca sotto il segno dell’”eterno ritorno dell’uguale” (p. 156). Sono quindi affermate con forza “le radici orfiche del tarantismo, che De Martino esclude a vantaggio della tesi orientata a sostenere origini medievali”. L’orfismo, il cui “nucleo tematico fondamentale” spiega come esso possa essere considerato precursore del cristianesimo, si può riassumere come “la convinzione che la vita terrena sia una semplice preparazione per un vita più alta, che può essere meritata per mezzo di riti iniziatici e pratiche di purificazione, all’interno di un dispositivo rituale conservato rigidamente segreto dalla setta” (p. 125). E’ la tesi di Vittorio Macchioro, che Pellegrino illustra e fa sua senza esitazione (pp. 134-149).

Ci avviamo ormai verso la Conclusione; nella quale Pellegrino ribadisce con convinzione la sua tesi, che spera di aver suffragato attraverso il lungo ed articolato excursus storico-letterario: “L’importante è aver dimostrato la sostenibilità di una tesi orientata ad affermare lo sfondo mitico, oltre che rituale, del tarantismo, le sue antiche origini ed il fatto che ridurlo alle ultime rozze ed eccentriche propaggini del Novecento non rende ragione di quella qual certa dignità culturale che probabilmente aveva in antico…” (p. 162). L’autore ha voluto evidenziare i termini dignità culturale, perché è questo, a mio avviso, che gli sta particolarmente a cuore. Ridare dignità (“quella qual certa dignità culturale che probabilmente aveva in antico”) ad un fenomeno troppo spesso interpretato come un segnale preciso di sottosviluppo (De Martino). E, dunque, tutta una tradizione culturale, quella nella quale si invera il mitologema di Dioniso, dalla tragedia di Euripide all’età di Goethe, da Schlegel a Holderlin, da Scelling a Schopenhauer, da Kierkegaard a Nietzsche (in proposito, si consulti il sempre utile Indice dei nomi),  viene chiamata al riscatto del tarantismo, a dargli una dignità, a sdoganarlo, come si dice di certi passaggi politici più o meno recenti. E col tarantismo, “il ritorno di Dioniso, cioè dello spirito dionisiaco, inteso non nel senso della documentabilità filologica ma della metafora che lo racchiude”, dà dignità (in quanto comprende e spiega) al “neotarantismo che pare dilagare: misto incandescente di suoni, ritmo, danze e colori” (p. 161), scrive Pellegrino con forte partecipazione emotiva. Sicché infine si comprende bene l’intenzione dell’opera, la sua per così dire finalità ideologica: fornire agli abitanti della “siticulosa Apulia” (p. 162) una storia illustre nella quale riconoscersi e nella quale farsi riconoscere anche altrove, una storia dunque anche spendibile sul piano “nazionale e oltre” (p. 16), mostrare in quale ragione filosofica e prim’ancora estetica è riposta “la nostra antica identità collettiva”, come Pellegrino scrive nella Introduzione (p. 27). Del che – come sempre quando sento il termine “identità”, tanto più “collettiva” -, mi si consenta, come si dice, di dubitare.

Pietro Cavoti. Chi visiti il Museo di Galatina intitolato a Pietro Cavoti (1819-1890), si stupirà che al gran numero di documenti di cui è ricca una sezione notevole dello stesso Museo dedicata al Cavoti non corrisponda nemmeno una pubblicazione che li passi in rassegna e ricostruisca la biografia dell’artista galatinese. Ora tenta di colmare la lacuna Luigi Galante che nel novembre 2007 ha pubblicato presso Edipan (Grafiche Panico di Galatina) un volume di 220 pagine dal titolo Pietro Cavoti, i tesori ritrovati, con sottotitolo Viaggio pittorico nella Soleto dell’Ottocento. Lettere, schizzi e disegni inediti di un artista galatinese a Soleto, con prefazione di Giancarlo Vallone. Il volume raccoglie le note biografiche di quanti nel corso di un secolo e più hanno ritratto l’artista galatinese: Janet Ross, Cosimo De Giorni, Nicola Vacca e Franco Silvestri; seguono le lettere inviate a Cavoti da Soleto o da altri luoghi da vari personaggi con cui l’artista era in contatto per motivi d’ordine pratico o di lavoro (spesso manca una contestualizzazione delle lettere e adeguate informazioni sui mittenti). Una sezione del libro è dedicata a I rilievi archeologici effettuati dal Cavoti ed una alle Immagini di Soleto (sono gli acquerelli di proprietà di M. Montanari). Interessante la sezione intitolata Appunti di viaggio in cui, a parte la Guglia, rivivono monumenti civili e religiosi della Soleto antica, ormai del tutto scomparsi. Seguono i Ritratti di Uomini illustri di Soleto (Matteo Tafuri, Francesco Cavoti, Francesco Arcudi e Antonio Arcudi) con Notizie tafuriane edite e inedite. Chiude il volume un’Appendice in cui Galante riporta Lettere a Cavoti di Cosimo De Giorni, Sigismondo Castromediano, Luigi De Simone con alcune risposte sue. Il volume, che ruota tutto intorno al rapporto tra Cavoti e Soleto (di qui un certo malcelato municipalismo), più che colmare la lacuna di cui sopra, ha il merito di richiamare l’attenzione degli studiosi sulla figura dell’artista galatinese, troppo a lungo trascurata. Infatti, a questo proposito rimane ancora valida la constatazione di Franco Silvestri (1978), che cioè “tra le migliaia di studenti che affollano l’Università di Lecce, centinaia dei quali di Galatina, nessuno abbia affrontato una tesi sull’illustre mal conosciuto concittadino…” (p. 62). Silvestri se la prendeva con gli studenti. Ma i professori che fanno, dormono?

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