Per parte sua il Levi rinviene nell’idillio uno stato d’animo che ha del mistico e richiama un celebre passo di S. Agostino (Confessiones, IX, 10), dove il silenzio dei sensi, presupposto per ascoltare la parola di Dio, desta il sentimento dell’eterno:
“(…) Si continuetur hoc et substrahantur aliae visiones longae imparis generis et haec una rapiat et absorbeat et recondat in interiore gaudia spectatorem suum, ut talis sit sempiterna vita, quale fuit hoc momentum intelligentiae cui suspiravimus, nonne hoc est “intra in gaudium tui?”.
“(…) Se un tal prodigio si prolungasse e si dileguassero tutte le altre visioni di genere molto inferiore e quest’una rapisse ed assorbisse e profondasse negl’interiori gaudi il suo contemplatore, e tale fosse in sempiterno la vita quale questo momento d’intelligenza per cui sospirammo, non sarebbe questo quello che accenna il detto “Entra nel gaudio del Signore tuo?”.
E prim’ancora De Sanctis ha scritto così nel suo studio su Leopardi:
(…) Ti sta avanti non so che formidabile, che ti spaura, un di là dall’idea e dalla forma. Tu non puoi concepirlo e non puoi immaginarlo. Vedi solo la sua ombra. Così i primi solitari scopersero Iddio“[12].
E per parte sua il Fubini afferma nel suo commento[13] che
“(…) il poeta vi coglie, trascendendo ogni particolare della vita sua propria e del mondo che lo circonda, un moto dell’anima allo stato puro, l’attrazione e lo smarrimento dinanzi all’infinito, al di qua di ogni considerazione metafisica (…)“.
E Morpurgo[14] invece vi avverte
“(…) la sensazione, il presentimento del nulla (che cosa può essere più vasto e muto del non essere?) piuttosto che la scienza d’una qualsiasi realtà ultratemporale ed ultraterrena”.
Una nuova categoria del sublime
Nelle citazioni che precedono il lettore avverte un’ansia di ricerca che non interessa soltanto intellettualmente, ma prende e conquide anche nella più profonda umanità. Siamo nella sfera estetica del sublime, a cui Leopardi, al momento della composizione dell’idillio nel 1819, ha dato un valore nuovo che germina da fermenti filosofici.
Il progresso della ragione e della civiltà fa venir meno e indebolisce le illusioni, senza le quali non c’è mai grandezza di pensiero, né forza e impeto e ardore d’animo. Presupposto ed effetto del sublime è far sì che la grandezza d’animo del poeta si comunichi al lettore, innalzandolo mediante la spontaneità e la magnificenza della fantasia espressa per ton’àkron lemmàton, cioè per somma ispirazione, concretizzantesi nell’uso di vocaboli che, mentre traspongono l’immagine da un concetto astratto a una cosa viva e reale (infinito silenzio, immensità, mare), sottolineano l’ingrandimento e l’ascesa dell’animo del poeta.
Il sublime nasce anche dalla consapevolezza della finitudine dell’uomo di fronte a stati di sgomento e di ammirazione per ciò che è grande e potente, stati spirituali che non valgono a distruggere la sua libertà. L’uomo grandeggia allora come soggetto morale, libero da ogni condizionamento empirico.
Siamo ancora nell’area delle correnti estetiche dominanti nel ‘700. La categoria del sublime si rinnova e si rigenera con Leopardi attraverso la forma conoscitiva della reminiscenza di un mondo passato, in cui la creatura è inscritta senza urti nell’armonia della natura. In questo modo Leopardi ha recuperato l’originalità dei poeti antichi, a cui è stato effettivamente presente ogni spazio fantastico, poiché non ci sono stati esempi anteriori che abbiano circoscritto e limitato la loro forza immaginativa. Nasce così una poesia che, attraverso gli oggetti circostanti (questa siepe, l’ultimo orizzonte) recupera l’integrità di poteri perduti dell’uomo (interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete) e, proponendo un ordine nuovo dell’unità essenziale di natura e uomo, riscatta il concetto di assoluto. In questo modo il poeta è rinato al tempo antico, e il tempo antico a lui.
Questa rinascita passa in Leopardi attraverso l’infinita catena dei ricordi registrata nella storia degli antichi errori, lunga come quella dell’uomo, ma volta al riscatto di esso dai pregiudizi: da quello della superstizione a quello degli dei, degli oracoli, della magia, dei sogni, dello sternuto, degli spiriti subalterni, dell’eclissi, del vento, dei terremoti, eccetera, per sostituirvi una simpatia universale di tutti gli esseri e di tutte le forze della natura[15].
Solamente al termine di questo percorso, e dico meglio di questo processo liberatorio, Leopardi modella ne L’infinito la vita universale e le sue leggi, e recupera con gli antichi nel circolo del Tutto la poesia dei sensi, del visibile, del materiale e del fantastico, redimendola dall’invisibile e dal metafisico.
La memoria in cui è nata l’ispirazione sta nel grembo delle cose, cioè nel circuito della vita universale, quindi nell’eterno. E là la poesia attinge la sua vita.
Concetto di vita universale
Come i poeti antichi, anche Leopardi raffigura sé e il mondo come natura; nella sua opera rivive come ideale perduto l’unicità di origine del genere umano postulata da conformità e corrispondenza di tradizioni, di religione, di opinioni non naturali, di mitologie, usanze, dogmi e riti fra popoli del cui scambievole commercio non si ha alcuna memoria.
Non vi può essere cosa né fine più naturale né più naturalmente amabile e desiderabile, che l’esistenza, né amore più naturale nè naturalmente maggiore di quel della vita, poiché la natura, essendo vita ed esistenza, ama la vita, la procura in tutti i modi e tende ad essa in ogni sua operazione, ed anzi, tendendo alla morte, non amerebbe il suo maggior possibile bene e opererebbe contro se stessa. Di conseguenza, ciascun essere, amando la vita, ama se stesso e non può non amarla quanto più è possibile e, di contro, non può non odiare la morte per la stessa ragione per cui non può amare il suo male, cioè odiare se stesso. In polemica col Di Breme, che argomenta di riconoscere vita sotto tutte le forme e non esclusivamente sotto quella umana, Leopardi in Zib. 19 sostiene che
“(…) questi che debbono avvivare la natura, questi poeti, son uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso concepir vita nelle cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensiero e forme ed affetti umani, è così naturale all’uomo che per levargli questo vizio bisognerebbe rifarlo.
(…) non si avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del poeta non è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa rosa viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica i metafisici, ma il volgo (…)”.
E’ l’uomo l’essere più elevato dell’ordine naturale. Questo principio si modella in Leopardi per virtù di salde acquisizioni maturate con lo studio del pensiero antico. Due elementi innanzitutto devono essere presenti alla mente umana: il ruolo degli individui che costituiscono il primo centro di unità, e l’idea di ciclicità derivante dall’osservazione astronomica. Difatti il corso del tempo, identificandosi col percorso celeste senza termini nella vicenda ciclica, ingenera la coincidenza di cielo ed eternità.
Così la connessione reciproca di tutti i fenomeni e il dominio di leggi generali si traduce in una forma di rappresentazione religiosa. Il sensibile e il naturale diventano l’immediata incarnazione dello spirituale, la religione assume un carattere estetico e l’uomo, perciò, per mettersi in relazione con la divinità, non ha bisogno di elevarsi al di sopra del mondo che lo circonda e al di sopra della sua naturalità.
In Zib. 3494-3495 leggiamo: “Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei le qualità umane, perché essi avevano troppa bassa idea della divinità. Che questa idea non fosse appo loro così alta come tra noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l’aver essi degli uomini e delle cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorar e innalzar gli uomini, e ch’effettivamente non più fecero umana la divinità che divina l’umanità, sì nella loro propria immaginazione e nella stima popolare, sì nella espressione ec. dell’una e dell’altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne’ poemi, nelle costumanze, ne’ riti, nelle apoteosi, ne’ dogmi e nelle discipline religiose ec. (22. sett. 1823.)”.
La poesia filosofica de L’infinito
Nella citazione che precede, il pensiero di Leopardi è chiaro: l’uomo ha una posizione privilegita nel mondo e quindi è al centro della vita universale in quanto contiene in sé la ragione del perenne rinnovarsi del mondo.
E come il fine della natura universale è la vita dell’universo, la quale è fondata sull’attivo principio causale di tutto il processo che si svolge nella vicenda di produzione, conservazione e distruzione cosmica dei suoi componenti, così l’elemento indistruttibile della vita universale è l’amore della vita da parte dell’uomo, lo studio della propria conservazione, l’odio e la fuga della morte, il timore di essa e dei pericoli di incontrarla. L’idillio L’infinito si muove quindi in un grande respiro che solleva l’anima ad un grado di potenza e di realtà sempre maggiore.
Il pensiero greco ha svolto in molteplici forme e aspetti la nozione dell’infinito: come dominio del tempo e dello spazio, come numero e come movimento, come sostanza e come forza.
Al vivo sentimento di Leopardi, l’infinito è apparso come fonte di disagio e di oppressione paurosa
ove per poco
il cor non si spaura
ma anche d’ammirazione e di rapimento estatico
ma sedendo e mirando,
come fonte dell’infinità del tempo e dell’eternità
e mi sovvien l’eterno
che nascono tuttavia contraddittoriamente dal nulla e nel nulla scompaiono, e proprio in questo sta la loro vita poetica.
L’eternità difatti è attributo dell’essere universale, ed eterno è ciò che si estende infinitamente nel tempo, ciò che resta assolutamente fuori di esso e ciò che, trascendendolo, lo include. Siamo alla radice della dottrina cosmogonica antica. Quando, nello sviluppo di essa, sorge l’idea che il divenire cosmico, al pari della vita organica, comprende, insieme al processo di formazione anche quello di dissoluzione in ininterrotta circolarità, con ciò si nega l’idea di un limite assoluto, e per converso si teorizza una sostanza eterna; questa, permanendo, esclude ogni cominciamento assoluto e ogni assoluta cessazione, e ricongiunge in sé il termine col principio nel tempo e nello spazio, che esistono soltanto nel nostro intelletto.
Noi registriamo nel pensiero greco due aspetti diversi nella visione della vita, l’uno come momento di transizione all’altro: un aspetto di incertezza e di infermità, aggravate dal peso immane dei mali della vita generati dall’orgoglio umano, e un aspetto da cui emerge una visione serena di fiducia nella vita, nella propria forza e nel favore degli Dei. Quale dei due momenti può essere assunto a nucleo essenziale de L’infinito?
Per Leopardi spazio e tempo sono un modo di considerare il nulla, nel senso che senza di essi il nulla non si può dare. Se si ammette che il principio è ciò che non ha in sé alcuna necessità di trovarsi dopo un’altra cosa, si deve ammettere che principio è anche ciò che produce un rapporto di necessità, il primo della serie, e non lo subisce.
Per Leopardi invero spazio e tempo non possono essere presi come determinazione perché in questo caso sarebbero negazione in quanto implicherebbero un termine, cioè un limite che negherebbe l’infinità della vita universale[16]. Perciò silenzio e quiete ne L’infinito sono predicati dello spazio da cui l’umano è assente, e il tempo è spiritualizzato dalla voce del vento che evoca il tempo avvenire (e mi sovvien l’eterno).
Siamo così, al termine de L’infinito, in presenza di un’ebbrezza divina, che a noi pare una conferma dell’intuizione desanctisiana, l’espressione di un ‘éntusiasmòs che produce nel poeta una condizione di ‘ékstasis, lo fa uscire da se stesso e lo reimmerge in piena natura, mettendolo in comunione con tutta la vita animale e vegetale:
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Leopardi non ha annullato se stesso, ma nel circolo cosmico egli si è risollevato e riconquistato per agire con la potenza della vita universale, consapevole del potere sovrumano che procura il pensiero che s’inebria di se stesso e, per esso, sale più in alto man mano che lo spirito rifonde la sua natura particolare nel nesso universale delle cose e i suoi impulsi passano nella coscienza di nessi sempre più ampi. Siamo in presenza di una filosofia della vita e non della morte. Ci sembra rigenerato difatti nel primo Leopardi il sapiente antico. E si tratta di una sapienza che non medita sulla morte, ma sulla vita, in una sana espansione della attività spirituale, volta all’amore di beni universali che, oltre l’ordine degli affetti umani, rendono partecipi dell’eternità.
[Elementi di cultura antica ne L’infinito del Leopardi, in Annuario 1988-89 del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone”, Galatina, pp. 13-20]
Note
[11] Si legga in proposito la lettera di Leopardi al Viesseux del 24 marzo 1826, e il pensiero n. 2472 dell’11 giugno 1822 dello Zibaldone.
[12] F. De Sanctis, Leopardi, a cura di C. Muscetta e A. Perna, Torino, Einaudi 1960, p. 116.
[13]Cfr. G. Leopardi, Canti, Introduzione e commento di Mario Fubini. Edizione rifatta con la collaborazione di Emilio Bigi, Loescher, Torino1964.
[14] G. Morpurgo, Antologia leopardiana, Lattes, Torino 1961 (IV edizione).
[15] Cfr. Leopardi, cit., Storia dell’astronomia del 1813, passim, e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815, passim.
[16] Cfr. Zib. 4233.