La sfida alle stelle: cento anni di Futurismo

di Antonio Lucio Giannone

«Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io –  sotto lampade di  moschea dalla cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgore di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture».

Così incomincia il famoso Manifesto di fondazione del Futurismo, apparso il 20 febbraio del 1909 sulla prima pagina del quotidiano parigino «Le Figaro», ma anticipato di qualche giorno o settimana da alcuni periodici italiani, come, ad esempio, il «Corriere dell’Emilia» di Bologna che lo pubblicò il 5 febbraio. L’autore era un giovane scrittore italiano, Filippo Tommaso Marinetti, nato nel 1876 ad Alessandria d’Egitto ma formatosi in Francia, il quale si era fatto già conoscere per alcune opere in versi e in prosa, di grande originalità, e per una rivista, «Poesia», che era diventata l’organo ufficiale del simbolismo nel nostro paese.

Il movimento da lui fondato intendeva promuovere un rinnovamento della letteratura e dell’arte, rifiutando il passato e ispirandosi alla civiltà moderna e alle sue principali caratteristiche quali la macchina, la velocità, il progresso scientifico e tecnologico. Non a caso, nel Manifesto, compare già l’immagine dell’automobile, che rappresenta appunto un simbolo della modernità. Infatti, nella prima parte di esso – una narrazione allegorica della genesi del Futurismo –  è descritto un giro che  Marinetti e i suoi amici, dopo una notte di veglia febbrile, compiono all’alba,  per le strade di Milano, in un’automobile che a un certo punto va a finire, capovolgendosi, in una profonda pozzanghera piena di un’acqua fangosa proveniente dalle fabbriche cittadine. Ma l’incidente non provoca danni di rilievo ai passeggeri, che da esso escono solo un po’ contusi, mentre la macchina viene tirata su e si rimette subito in corsa, abbandonando nel fondo «la sua pesante carrozzeria di buon senso». Solo allora Marinetti e i suoi compagni dettano le loro prime volontà «a tutti gli uomini vivi della terra». Il «bel fossato d’officina», insomma, come lo definisce l’autore, assume quasi le valenze di un grembo materno da cui nasce il movimento marinettiano, indissolubilmente legato quindi, fin dalle sue origini, al mondo dell’industria e della tecnica.

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