di Adele Errico
Un dipinto di Renè Magritte raffigura un uomo che, specchiandosi, non vede il proprio volto ma la propria nuca. All’angolo della specchiera è posato un libro, il cui titolo, con i caratteri ovviamente capovolti, è leggibile nell’immagine raddoppiata dello specchio: “Les adventures d’Arthur Gordon Pym”. Magritte sceglie il solo romanzo (tra una miriade di racconti) scritto da Edgar Allan Poe per inserirlo in questo dipinto – intitolato “La reproduction interdite”, letteralmente “La riproduzione vietata” – in cui il soggetto non riesce a vedere nello specchio il proprio volto. E quanto può essere orrido guardarsi allo specchio e vedere, non la propria faccia, ma la propria nuca? Quanto può essere orrido che il solo oggetto in grado di ridarci il riflesso della nostra immagine, che ci racconta come siamo fatti, come siano i nostri occhi, i solchi della fronte, la forma della nostre labbra, rifletta invece la parte di dietro della nostra testa, quella più insignificante, che in fondo non racconta nulla di noi perché, certo, una persona che amiamo (o semplicemente conosciamo) sappiamo riconoscerla anche se girata di spalle, ma solo perché immediatamente ci sovviene come sarà quando si volterà a guardarci? Ecco. Tanto orrido è “Storia di Gordon Pym”. Orrido nella sua capacità di pungolare le corde del brivido, di rappresentare l’orrore puro senza la necessità di ricorrere ad elementi fantascientifici: i personaggi di Poe sono vittime delle allucinazioni della propria mente, soffocati dal terrore che sbatte tra le pareti del loro stesso cranio, intrappolati in un incubo che inizia e finisce nella loro immaginazione. Così, “Storia di Gordon Pym” assume, nelle prime pagine, le fattezze di una classica avventura marinaresca: tempeste, isole misteriose, selvaggi, naufragi, digressioni di tecnica nautica.