Scrivo questo non per piaggeria (sarebbe infantile e ridicola), ma perché questo libro di poesia è anche sedimentazione di paesaggi e di elementi e di suggestioni appartenenti alle molteplici “regioni” di un’opera vasta e coerente testé citate.
E proprio da qui comincerei l’attraversamento del libro, dopo essermi fermato un attimo sulla sua soglia per annunciarne la natura di libro di poesia e di portolano per una navigazione ricca e complessa.
Antonio Prete ha affermato più di una volta di aver scritto in poesia fin dall’adolescenza, ma di fatto ha pubblicato la sua poesia in età matura, come se avesse avuto pudore di farlo troppo precocemente o timore nel mentre si confrontava da lettore innamorato e da valente studioso con giganti che rispondono al nome di Leopardi, Baudelaire, Char, Hölderlin, Jabès…
Credo infatti che esista, in alcuni autori, un’umiltà, un pudore, ribadisco, che li spinge a un limae labor indefesso e a mantenere a lungo nell’ombra (parola, concetto e immagine fondamentale nell’opera di Prete) la propria produzione artistica e quest’atteggiamento è accentuato se per scelta esistenziale e per mestiere si smontano e si rimontano, si studiano, si amano nelle loro intime pieghe le opere dei grandi.
Antonio Prete ha poi deciso in un dato momento di far conoscere anche la sua opera in versi ed ecco Tutto è sempre ora, terza tappa dopo Menhir (Roma, Donzelli, 2007) e Se la pietra fiorisce (Roma, Donzelli, 2012), benché non scorgerei, ribadisco, cesure dalla restante opera: ci sono pagine saggistiche o narrative che possiedono la medesima bellezza ritmica, la stessa forza immaginativa, la medesima eleganza sintattica e lessicale dei testi poetici.
La precisa visione della poesia di cui scrivevo in precedenza consiste di una concezione che chiamerei leopardiana e baudelairiana: forme chiuse e ben scandite (l’endecasillabo e il settenario, la strofe) ma capaci di dire la modernità e la contemporaneità, forme del poetare nient’affatto passatiste o arretrate, ma, corroborate da una tradizione, intese a farsi carico di tutta la complessità e l’ambiguità che dominano l’età contemporanea.
Nel libro di poesia più recente di Antonio Prete il desiderio è splendido asse portante di un’opera poetica molto matura e di qualità davvero alta: è desiderio (e anche azzardo, scommessa, coraggio nell’osare) esercitare la propria scrittura in forma di ritmi poetici quando ci si è prima affermati in maniera indiscussa come studioso confrontandosi con personalità di giganti (Leopardi, Baudelaire, Jabès, Char, Labé, appunto, Luzi, Celan e altri); è desiderio il raggiungere un linguaggio capace di essere forza e bellezza (si legga, a pagina 92, Sullo stato della lingua italiana, testo che stigmatizza la situazione della nostra lingua negletta, priva d’odore / (…) / perde grazia, precisione, finezza / (…) / si versa in pioggia di tweet, d’esseemmeesse / in assenza del quia e del necesse); è desiderio voler stare, essere vivente e pensiero poetante, tra le stagioni e i paesaggi, nelle città e sotto il cielo/i cieli (spesso notturni e lunari); è desiderio colloquiare con amici viventi e scomparsi e con autori studiati, interrogati, ammirati (in una parola: amati); è desiderio congegnare il dire secondo ritmi nobili ed eleganti (mai stucchevoli, si badi, mai volgarmente in posa per farsi ammirare) – ed è, alle soglie del secondo decennio del XXI secolo, omaggio commosso e convinto all’endecasillabo (e, per affinità e allusione, a due versi fratelli, all’esametro greco-latino e all’alessandrino francese); è desiderio cantare l’amore; è desiderio cantare la propria terra d’origine (il Salento), la propria patria adottiva (Siena e il Senese) e altri luoghi di vita e di poesia: ché il cantare scaturisce in quest’opera dal più puro atteggiamento leopardiano del dire in ritmi e cadenze (talvolta in rima) un pensiero che ha bisogno di andare a capo perché conosce le cesure del ritmo e delle proprie cadenze, di dispiegarsi per accenti e richiami di suono in una geometria della composizione che proprio per questo esalta la libertà del pensiero e la sua umanissima gioia di avere una voce per dirsi – e senza vezzi, lustrini, occhieggiamenti.
L’intero libro respira della gioia e del piacere che l’autore riceve dal lessico ricchissimo della lingua italiana, dai suoi suoni che paiono disporsi così naturalmente nell’andamento endecasillabico: è come se lo sguardo poetico di questi incipienti Anni Venti sapesse di essere debitore a una tradizione non invecchiata e non provinciale capace di fare ancora scuola.
Non sarà allora un caso che la prima lirica del libro s’intitoli La stanza e che, luogo chiuso dell’intimità e dello scrivere (ma anche stanza di una canzone o di un poema), essa sia legata al paesaggio delle crete senesi e raccolga nella sua ombra quello che è andato perduto (Un esercizio amaro è dare / un nome a quello che è perduto. Un viso / sta nell’ombra, da un angolo mi guarda / con un sorriso che è d’enigma o forse / di dolcezza, e con voce fioca, «anch’io», / dice, «sono una chimera, o una piuma / che svola inconsistente nel mai più» – pag. 5), così che l’assenza è anche avvio del desiderio di rimembrare e di scrivere (di scriverne).
Da Trenta gradi all’ombra (Roma, nottetempo, 2004): Adombrare è voce dimessa, fievole, quasi un sussurro, un atto di cortesia appena pronunciato, e ha, dell’ombra che prende in sé, che assorbe nel suo movimento, il carattere più proprio: il sapersene stare silenziosamente di lato, al margine, nei confini, ma anche l’amore per un particolare ritmo, quello dell’apparizione-sparizione. In quel ritmo non c’è dimissione, e neppure rassegnazione. Ci può essere invece la saggezza di chi sa che solo quel che non appare è profondo, e solo nel nascondimento è possibile attingere se non la verità almeno le sue metafore, appunto le sue ombre (in Adombrare, pag. 65).
Diceva Antonio Prete nella raccolta Menhir e nel testo omonimo (Roma, Donzelli Editore, 2007): Nel filo d’aria e di millenni / che lega il vertice alla stella / trascorrono fiumi di pensieri, / con occhi d’animali aperti / su deserte scogliere, / con gesti di creature dispersi / al vento delle sere supreme, / con grida di uragani e di ferite. // Il cielo ruota fino al sonno delle stelle, / fino al gelo dell’alba / che disanima la pietra. // Nel filo d’aria e di millenni / l’aspra malinconia del vivente – il libro einaudiano sviluppa queste premesse, dal motivo conduttore della stella e delle costellazioni allo sguardo animale, dalla presenza del cielo al mare, dagli alberi (il ricorrere della magnolia, degli ulivi salentini e senesi, delle palme), ai luoghi più amati:
Un albero sul pianoro, oltre i calanchi,
un resto d’albero, solo, sbrecciato,
senza chioma,
un graffio nero nell’aria (da Vuoto d’albero, pag. 6) e potrebbero stare, questi versi, in dialogo con certe fotografie di Abbas Kiarostami o di Michael Kenna, essere inchiostrati ideogrammi sulla carta della visione e della dizione poetica, di un respiro che, nel momento stesso in cui avviene, sa essere un sempre che, evidentemente, solo la parola poetica può tentare di realizzare:
Nel respiro dell’ora
And all is always now
Thomas S. Eliot
L’inizio, i fuochi e le pietre stellari
dell’inizio, la fiumana di tempo
fatta conchiglia, deserto, montagna,
le voci d’animali nelle selve,
tutto è sempre ora.
Nuvole d’ali che navigano alte
sopra l’oceano, guizzi di lucertole
nei meriggi di luglio sulla terra
rossa, gridi di gazze tra gli ulivi,
tutto è sempre ora.
Il canto roco, eguale, di rotaie
mentre i vagoni rigano pianure
e intorno corrono alberi, anni, cieli,
la tua mano che m’avvolge la sciarpa
sul bavero nelle albe degli addii,
tutto è sempre ora.
Il transito, la cenere, l’aurora,
tutto è sempre nel respiro dell’ora (pag. 7).
In nuce ci sono, nel testo appena considerato, tutti i motivi conduttori del libro che, a loro volta, si riallacciano a tutti gli altri libri di Prete, come mi proverò più in là a dimostrare.
Proseguendo il poeta, oserei dire innamorato delle costellazioni e dei loro nomi, dei miti a esse connessi, (ma non soltanto, ché egli si chiede spesso ed esplicitamente se esista una qualche correlazione tra la sorte dei viventi sulla terra e il moto delle stelle e delle galassie), scrive:
(…)
O sono solo i nomi delle stelle
i segni di un legame,
i segni ardenti di un’appartenenza
al vortice dell’essere e apparire,
al fuoco di consunzione e rinascita? (in I nomi delle stelle, pag. 9), riproponendo in qualche modo l’annosa questione nominalistica posta da Roscellino di Compiègne, ma attenzione: in questo caso Prete tocca un nervo scoperto e quindi dolorante dello scrivere in versi, vale a dire il rapporto reale tra la parola e l’oggetto designato, la capacità più o meno effettiva della poesia di dire il mondo, le virtù e le mancanze del linguaggio, la stessa capacità conoscitiva del linguaggio; e questo succede a pochissime pagine dall’inizio del libro, ché non si può comporre poesia senza avere consapevolezza di tali questioni, senza essere, mi si passi l’espressione, allievi di De Saussure e di Wittgenstein, di Lacan e di Benveniste, di Derrida e di Benjamin e proprio per questo ancora innamorati della parola, ma consapevoli del labirinto esistenziale, epistemologico, filosofico nel quale siamo immersi. Se vogliamo potremmo anche chiosare: non siamo mai innocenti quando compitiamo i nomi delle stelle e delle costellazioni. E, infatti, a pagina 14 leggiamo: Che cosa unisce il cardo alla parola / che ora lo dice? // Suono senza vento, / argine del silenzio, il cardo è qui, con il suo rosso: / un fiore di sillabe, / solo, dentro il giardino della lingua (in Un cardo) – il “cardo fiore di sillabe”, splendida presenza nel paesaggio salentino (lo si ritrova a pagina 51, sulla duna un cespuglio arso di cardi in Spleen), forse lo stesso cardo di un frammento di Alceo poeta molto amato da Prete, questo cardo della nominazione si potrebbe colorare delle suggestioni derivanti da un libro come quello di Ivan Ilic Nella vigna del testo dove lingua, scrittura, ruminazione della parola, volo dello sguardo e della mente da rigo a rigo, da foglio a foglio animano incessanti e nutrienti la coltivazione del sapere.
E sapere è anche passaggio dall’interrogarsi circa il nominare all’avere coscienza del destino cosmico del vivente, del rapporto di quest’ultimo con l’universo: (…) / Questo fiorire contiguo al vanire, / questo perdersi di luce dinanzi / all’insorgente luce è quel che unisce / il volo trasparente dell’effimera // e il perpetuo orbitare dei pianeti? (in Declino dell’inverno, pag. 22) – mentre proprio sul finire dell’ultima composizione in versi del libro, a pagina 96, si legge: «stanno in un unico silenzio il battito / del cuore e il tremolare della stella» (in Andromeda). Tra le due ecco altri versi, il ritornante interrogativo: (…) In quale trama s’annodano insieme / il soffio che trascorre nel cespuglio / di salvia / e il brivido luminoso di Venere / già alta sopra l’orizzonte? (in Crepuscolo serale, pag. 28) e Ma c’è, tu dici, lo stesso respiro / in questo aspro vanire e nell’immenso / spalancarsi di galassie, nel loro / assillo d’infinito (in Lo stesso respiro,pag. 42)
Poesia è certamente tessitura di suono e di silenzio: Quel punto dove il silenzio si sporge / oltre il tacere, forse è lì il nido / della parola, diceva. // (…) // Come farsi prossimo / all’intimo delle cose, questo il suo assillo, / e vedere le lettere disanimate / muovere verso il nome. / Come scorgere l’alba del conoscere (in Verso la parola, pag. 27) – già il titolo del componimento suggerisce un moto, forse un viaggio, un tentativo di recuperare l’origine perduta del vivente e del suo empito conoscitivo, come accade proprio nell’archetipo della poesia moderna e contemporanea ch’è Andenken / Ricordo di Friedrich Hölderlin. E leggo Giorgio Agamben, il saggio Vortici contenuto in Il fuoco e il racconto (Roma, nottetempo, 2014): I nomi – e ogni nome è un nome proprio o un nome divino – sono vortici nel divenire storico delle lingue, mulinelli in cui la tensione semantica e comunicativa del linguaggio s’ingorga in se stessa fino a diventare uguale a zero. Nel nome, noi non diciamo più – o non diciamo ancora – nulla, chiamiamo soltanto.
(…) il nome è, in realtà, un vortice che buca e interrompe il flusso semantico del linguaggio, e non semplicemente per abolirlo. Nel vortice della nominazione, il segno linguistico, girando e sprofondando in se stesso, s’intensifica ed esaspera fino all’estremo, per poi lasciarsi risucchiare nel punto di pressione infinita in cui scompare come segno per riapparire dall’altra parte come puro nome. E il poeta è colui che s’immerge in questo vortice, in cui tutto ridiventa per lui nome. Egli deve riprendere una a una le parole significanti dal flusso del discorso e gettarle nel gorgo, per ritrovarle nel volgare illustre del poema come nomi. Questi sono qualcosa che raggiungiamo – se li raggiungiamo – soltanto alla fine della discesa nel vortice dell’origine (op. cit., pag. 66).
E continuiamo ad attraversare Tutto è sempre ora.
(…)
Tra poco in alto brillerà Auriga,
con i cuccioli, la capra, le nebulose.
Gli chiederai che tenga a bada
dalla sua splendente lontananza
lo sciame d’anni che alle spalle
manda ronzii, rimugina rimpianti (in Solstizio d’inverno, pag. 10).
Non si può allora non pensare a Nostalgia. Storia di un sentimento (Milano, Raffaello Cortina, 1992) e a Trattato della lontananza (Torino, Bollati Boringhieri, 2008), oltre, naturalmente, agli studi leopardiani per avere conferma dell’interconnessione tra i vari libri dello scrittore salentino: e m’interessa mettere in evidenza come l’opera saggistica naturalmente e armoniosamente si espliciti anche nei versi, nel ritmo della poesia.
Ricopio, per esempio, da L’imperfezione della luna, Milano, Feltrinelli, 2000: Sosteneva che la cosmologia, ovvero la scienza che studia la formazione e i modelli dell’universo, e la paleontologia, la scienza che indaga sull’evoluzione degli organismi viventi fin dalle prime ere geologiche, sono da considerarsi le scienze morali più importanti della nostra epoca, perché educano al senso della finitudine, del limite, e abituano a un’idea del tempo e dello spazio abissale, sconfinata, e in quell’idea ogni ragione umana rivela il suo brevissimo respiro, la sua risibile inconsistenza (in Le branchie del pesce e il tempo, op. cit., pag. 152)
E ogni poeta avvertito ricorre al lievito dei poeti che sente affini o che l’hanno nutrito e lo nutrono; è il caso di Paul Celan e di Rainer Maria Rilke, presenti nella filigrana del testo Rosa a Breslavia (pag. 11) dedicato a Rosa Luxemburg:
Il gelo delle trincee, l’urlo dei feriti.
L’inverno trema sotto il mantello
di ghiaccio. Nelle strade vessilli di morte.
Una rosa profuma il cortile
del carcere a Breslavia.
I suoi occhi negli occhi del bufalo rumeno
picchiato a sangue dal soldato.
Lontane le praterie. Indifeso
il dolore animale.
C’è una luce tra le corna.
I petali della rosa sparsi
sulle pietre, sulle gocce di sangue.
Per un tempo privo di ferocia.
Il riferimento è alla reclusione di Rosa Luxemburg nel carcere di Breslavia, nel cui cortile ella vide un bufalo percosso a sangue, riconoscendo negli occhi dell’animale lo sguardo e il dolore di un fratello; si pensa allora ad almeno due testi di Celan, Coagula in Atemwende, e Du liegst in Schneepart, nei quali il sangue, o meglio, la Wunde, la ferita, è associata a Rosa e viene ricordato l’assassinio di Luxemburg e Liebknecht e alla Siebente Duineser Elegie di Rilke là dove il poeta accenna all’animale sofferente (ein kümmerndes Tier), così che abbiamo, in tal senso, due citazioni indirette, ma sostanziali e in più, come spesso accade nel libro, esistono rimandi o richiami da un testo all’altro e nel caso presente, andando a leggere a pagina 13, si trova: (…) // Nella quieta armonia dell’accadere / tremar di foglia e moto delle stelle / sono sillabe di una stessa lingua. // Il grido della pernice ferita / anch’esso è suono di quell’alfabeto. / Ma il dolore del vivente, diceva, // mostra del tempo la gelida semente (in La gelida semenza) – ritorna dunque il tema del rapporto tra il terrestre e il cosmico (che qui il poeta legge come una lingua comune) e il concetto del dolore che affligge ogni essere vivente, il vivente tout court – senza dimenticare che la pernice, ricorrente nei testi di Prete, richiama anche l’affermazione di Alcmane di aver imparato il canto proprio dalla voce della pernice: (…) C’è qualcosa di questa appartenenza / che si fa grazia nel passo del gatto / lungo il ciglio o diviene volo e grido / nella pernice? Questa è l’armonia / nascosta forte più / dell’apparente? / Ritmo che unisce tremito di foglia / e notturno cammino di cometa? (in L’appartenenza, pag. 33). – Lo sguardo animale è, inoltre, l’ultima parte di quel libro prodigioso che s’intitola Prosodia della natura – Frammenti di una Fisica poetica (Milano, Feltrinelli, 1993). A pagina 157 trovo: La struttura dell’alveare, la tela del ragno, la spirale della conchiglia hanno insegnato all’uomo il senso della forma, lo hanno sollecitato verso architetture d’azzardo: o è, questa relazione didattica, la superficie di una rispondenza che affonda in quella regione dove, per tutti i viventi, il Bios è già forma, il movimento geometria, l’esistenza disegno? L’essenza dell’estetica sarebbe allora in questa profondità della forma, che coincide con il respiro.
Tornando per un attimo a Rosa di Breslavia si consideri l’equilibrio e la sobrietà del testo di Antonio Prete che viene a essere, anche in virtù di una tale scelta stilistica, molto incisivo e commovente.
Non a caso segue poi una poesia dedicata ai naufraghi del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa e, ovviamente, a tutti i morti migranti: Sono scritti sulle acque i loro nomi. // (…) // Le scogliere laggiù gridano nomi (in Compianto, pag. 12), ma il testo mette in evidenza, senza retorica né sentimentalismo né tanto meno moralismo, l’indifferente egoismo dell’Occidente: la poesia è saldamente legata al tempo presente, non vittima di un’urgenza cronachistica, capace bensì di modulare un canto dolente per le vittime (umane o animali) di una storia viceversa anti-umana e anti-animale. A pagina 54 è dato leggere: Lo stesso cielo, più oltre, di là da questo mare, vede altre rive, vede il fumo che sale da case bombardate, e madri che corrono in strada a sollevare dalla polvere il figlio colpito. Vede deserti attraversati da colonne umane in fuga verso altre terre, ospedali da campo, villaggi di rifugiati e di profughi, soldati bambini con il mitra la collo (in I cieli vedono) e in Mattino domenicale a Harlem: (…) Il blues del vento negli alberi / era suono d’acqua e scoppiettio di fuoco, / raccontava storie di mietiture sotto il sole, / di paludi incendiate, di schiene / rigate da ferite, di corpi abbracciati / nell’afflizione, e nel sorriso potremo leggere a pagina 87 nella rimemorazione della plurisecolare offesa ai danni delle genti d’Africa.
Ritorna ora Rilke, ma affiora Montale, magari anche Rafael Alberti in Angelo (pag. 17): Sei il brivido di luce nell’ombra / del porto, mentre attendi, prima di sera, / la barca rossorizzonte. // Sei la riga celeste tra le nubi / (…) // Sei la linea esatta dove il dolore / della terra ha per confine / il silenzio del cielo. // Sei la sillaba dell’assente (…) // Sei il lampo dello sguardo animale / (…) // Sei il simulacro diafano del desiderio / (…) // Un giorno, le ali iridate di ruggine / e di nafta, eri poggiato contro una baracca. / triste, nella tua impotenza – è l’Ottava Elegia duinese (Mit allen Augen sieht die Kreatur das Offene – tutta occhi la creatura vede l’aperto), è L’angelo nero di Satura,sono i molti ángeles albertiani che qui s’incontrano mentre Antonio Prete non ha timore di riproporre uno stilema tipico della poesia lirica di tutti i secoli, il “tu” cui indirizzare un discorso, un moto del pensiero, un sentimento, ma, qui, inserendosi in una sorta di angelologia modernissima, ché l’angelo annuncia lontananze e malinconie, cadute e mancanze.
Non so dire, in verità, se siano leggibili tracce della poesia di Salvatore Toma in quest’opera di Antonio Prete, ma se a pagina 19 si ritrova il tema dell’animale – Nel giorno del giudizio gli animali daranno testimonianza per te, diceva. Perché i loro occhi sono la chiarità del mattino intorno ai tuoi pensieri. (…) Decifrano nel tuo gesto quel che esso ha in comune con l’agitarsi delle piante e con il passaggio delle stagioni. (…) Cerca nel loro sguardo la direzione per scrutare quel che l’orizzonte nasconde – vi scorgo molte contiguità con i capodogli, con le soavi calliopi, con il maiale, con il gufo, con i cani del poeta magliese e con quella medesima volontà di vedere il mondo degli umani con sguardo animale, il che vuol dire innocente e sbigottito per i guasti provocati dall’uomo sul pianeta. Anche in questo caso, poi, si ricordi un libro di Antonio Prete intitolato L’ordine animale delle cose (Roma, Nottetempo, 2008) nel quale la scrittura si fa alla lettera sguardo animale (e non importa che l’animale in questione sia reale o fantastico, ch’esso sia un gatto rosso che ha fatto compagnia allo scrittore o un animale della letteratura – del resto l’axolotl di Cortázar docet), si pensi pure ai gatti che popolano Les Fleurs du Mal (livre de chevet irrinunciabile per l’Antonio Prete lettore di Baudelaire e anche suo studioso, suo traduttore) per poi incontrare A una lupa a pagina 29: (…) // Ma una volta vidi con certezza / nella giada dei tuoi occhi / scaglie della sapienza dalla quale / ci allontanò l’elegia del fare, / l’ansia del distruggere, mentre visioni sulla riva della Lagoa e dell’oceano sono Luce animale del calmo apparire. / Un dono, forse, della lontananza (in Luce animale, pag. 30). A un gatto (pag. 31): (…) Con occhi d’agata screziata / fissi il pulviscolo di luce. // (…) // Te ne stai, privo di pensieri, / nel giardino senza tempo / dove germogliano i pensieri – e potrebbe essere lo stesso gatto chiamato Rouge protagonista dell’omonimo racconto leggibile in L’imperfezione della luna (op. cit., pagg. 154 e 155) e il gatto presente anch’esso fin dalla copertina (l’unica sagoma rossa tra le sagome nere) in L’ordine animale delle cose.
Prosodia della natura (op. cit.) recita proprio sul suo finire: I silenzi che fluttuano nello sguardo animale fanno apparire ridondante e clownesca la proprietà umana di dare nomi, di contrassegnare con parole il variopinto ordine dei viventi. Perché su quella proprietà (…) è stata innalzata la torre della differenza e del dominio. Il lavoro dei poeti è forse l’esercizio millenario, e strenuo, perché la differenza torni a essere solo una proprietà, il supremo sia abolito nel creaturale: per questo la parola, nella poesia, è vento, acqua, cenere, pietra, foglia.
Osservare la singolarità del vivente, di ogni cosa vivente, come la pulsazione necessaria di una stessa lingua: se la poesia ha, come le nuvole, uno sguardo, esso è il riflesso dello sguardo animale (pag. 171). E, qualche pagina prima: «La notte ti Natale parla ‘n grecu ogne animale». È una credenza salentina, da me più volte udita nell’infanzia. Il greco – lingua dell’Apocalisse – come luogo della prossimità tra l’uomo e l’animale? Oppure: l’accesso alla lingua – alla lingua dei testi sacri, che per una cultura bizantina è il greco – come segno di un’appartenenza degli animali al piano della redenzione? O ancora: è la nascita, che il Natale significa, sempre, e per tutti, nascita al linguaggio? (ivi, pag. 159).
Autore fondamentale e presente fin dal titolo del libro einaudiano, ma anche in alcune citazioni esplicite e nella filigrana della tessitura poetica di Prete è, ovviamente, Thomas Stearns Eliot e lo dico qui in particolare perché, approdando a Mercoledì delle Ceneri (pag. 20), non si può non pensare all’Ash Wednesday eliotiano, con l’interessante presenza, al posto del juniper tree, dell’ulivo, l’albero sacro salentino, ma anche assai presente nel paesaggio toscano-senese, affine per la meditazione sul tempo – Il tempo che è cammino e apparizione. / Pulsazione di radice , / vertigine / di millenni scrive Antonio Prete per giungere allo straordinario distico finale: Il tempo che è solco / di conchiglia e fuga di comete.
E in tale solco si pongono anche le imitazioni, più che tradizionali traduzioni, da poeti come Celan, José Ángel Valente, Wallace Stevens, Ida Vitale – le penso inserite nella nobile tradizione di Robert Lowell, di Eugenio Montale, di Ingeborg Bachmann, di Cristina Campo che sapevano creare proprie poesie partendo da testi molto amati ed esercitando una fedeltà e un amore tali e sapienti da realizzare non pedisseque versioni, ma illuminanti accensioni di poesia.
Infatti anche nelle imitazioni Antonio Prete si dedica ai temi prediletti (la sera, il variare delle stagioni, la lontananza – follia dell’oltre scrive in La sera è scesa a prendersi le siepi, pag. 23 -, la nostalgia).
C’è sempre una grande bellezza nella scelta lessicale, mai snobismo, ma ancora amore per la lingua, per le sue capacità espressive, per la sua precisione nel designare; ho appuntato alcuni, ammirevoli passaggi per me esemplari dal componimento Giugno, tramonto pag. 32: Brusio di vento nell’ultimo lampo / del giorno e inquieto sfronzio di ramaglia. / (…) (Nel roseto una trama di verbasco. // (…) / Lungo il passaggio sfarfaglia improvviso / un fagiano e s’inselva. // (…) stilla / di un’acqua che diroccia e muta luce / e suono, stilla che è nuvola, fiume, / sfera azzurra che volteggia tra mondi.
Si noti il sapiente richiamarsi dei suoni tra di loro e la capacità ch’essi hanno di generare immagini, la potenza dei termini lessicali che comprovano quanto determinante sia la poesia affinché la lingua non s’impoverisca, ma conservi la sua energia creatrice e generatrice di pensiero: L’immenso dorme (…) / nell’alcova segreta dell’istante (in L’attesa, pag. 35).
Veniamo così alla seconda parte dell’opera, Torre sveva, titolo che si riferisce all’originaria torre intorno alla quale si sviluppò successivamente il castello di Copertino, paese natale dell’autore e titolo che irresistibilmente richiama il libro Torre saracena. Viaggio sentimentale nel Salento (San Cesario di Lecce, Manni Editori, 2019) nel quale Prete ha raccolto testi in prosa dedicati a vari luoghi della Terra d’Otranto perché non c’è dubbio che la “salentinità” (senza provinciali sciovinismi, senza mitologemi d’accatto, senza insensate chiusure) è una postura dell’animo e della mente, un modo di riconoscersi Mediterranei dell’estremo Sud Est d’Italia, figli di tutte quelle genti che, per disparati motivi, talvolta pacificamente, talaltra bellicosamente o drammaticamente, sono giunte e si sono fermate in Terra d’Otranto per dar vita, nel tempo e nel crogiuolo degli incontri (e degli scontri, non lo si può negare) a un particolare modo di essere e di sentire.
Il castello / con il fico sugli spalti, gli ulivi in basso / che vanno verso il mare e il pianto / del violino (che) incendia il passo della tarantata e poi le torri delle masserie, più oltre i muri a secco oppure braccianti in attesa alla colonna, ancora Uomini sull’uscio (che) narrano la guerra. All’ombra // del menhir la ricordanza è aspra. E sono / i giorni delle terre occupate, della rivolta (in Visita dell’aurora, pagg. 39 e 40) costituiscono i lacerti che ho scelto (e mi scuso per aver straziato così il lungo testo) da un componimento che ha l’ambizione di coniugare ricordi e sensazioni personali con la storia generale del Salento durante il Novecento, affidando alla poesia il compito di dire malinconie, ricordi appunto, sentimenti da trasformare in patrimonio comune e condiviso: il paesaggio (credo impensabile la poesia di Prete senza queste assai frequenti emersioni del paesaggio), le stagioni, le persone (i Salentini, in questo caso, quali le donne che ricamano nella penombra, gli spaccapietre, il ragazzo venditore ambulante, la gente radunata dalla festa del paese…) sono legati a una storia di disoccupazione, di guerra (le due guerre mondiali in particolare), di rivolte (quella dell’Arneo, per esempio), di subalternità culturale (e non può non essere rammentato qui il nome di Ernesto De Martino) e Prete fa tutto questo scegliendo un’espressione chiara e diretta, componendo immagini nette e scevre di portati metaforici, ma immediatamente decifrabili. Soltanto la figura femminile che balugina nei versi (È lei, nel chiaroscuro della stanza, / di qua dall’arco, lei che è trasparenza, / mentre il tempo scurisce intorno le orme. // Porge il vassoio con i fichidindia / raccolti all’alba sul margine del campo: / il gesto è fermo nel turbine dei giorni) rimane non esplicitata, ma potrebbe essere la madre del poeta, figura che compare anche altrove nel libro e in versi sempre commossi e mai sentimentali (Madre a pagina 25, probabilmente Il demone della presenza a pagina 58 – Lei sorride da fotogrammi sfocati. / Attraversa la piazza, si scosta i capelli dal volto, li raccoglie nel foulard. (…) O va con le ragazze nerovestite lungo case bianche di calce, nella sera che non avrà notte né alba – Li rose tua a pagina 67, Canal Grande a pagina 82).
La voce di mia madre che raccontava una storia aveva tanti toni, saliva e scendeva lungo la scala di quei toni, s’allontanava e si faceva vicina, così le cose che nominava era come se fossero prese in mano dalla sua voce e accarezzate e poi rimesse al loro posto dentro il racconto: a ripensare a quei racconti mi viene in mente come lei indugiava su certe parole trascinandole e ripetendole sicché sembravano lunghissime e lontane, e certe altre parole erano come d’aria, leggere e in movimento, non avevano cose dentro di sé ma solo un suono che rotolava verso altri suoni, verso suoni che avevano con sé castelli e mendicanti, califfi e giardini profumati di limoni, figlie di regnanti diventate sante e marinai che navigavano per tutta la vita in mari senza fine – ho riportato un passaggio da Favola d’ombra, testo contenuto in Trenta gradi all’ombra (Roma, nottetempo, 2004, pag. 46) perché non avrei timore d’individuare una sorta di linea di discendenza diretta tra l’attitudine materna a modulare la voce per narrare e la creazione poetica del figlio il quale ha appreso proprio la lingua materna che gli ha insufflato anche l’inclinazione alla poesia – ricordiamocene quando, più avanti, saremo approdati ai tre testi in dialetto copertinese-salentino, ricosrdiamoci del fatto che il materno è, pure, la capacità di generare la lingua e il nominare.
La luna, o meglio le lune abitano tantissime pagine dell’universo di Antonio Prete e di questo libro; il grande Recanatese nume tutelare certamente, direi che l’astro notturno sappia assumere nell’opera di Prete una presenza e un significato spiccatamente autonomi e persuasivi, collegabili ancora alla presenza materna e a una cultura (quella meridionale e salentina) che molti legami ha e conserva con la luna e con la notte, con la ciclicità della natura, con le variazioni di luci e di maree, di umori e di fantasie. Evidentemente per Antonio Prete non si tratta di “uccidere il chiaro di luna”, ma di ritrovare, poco oltre la soglia del nuovo millennio, modi e motivi per dire di una presenza e di un’ossessione mai spenta, di una voce (ricordate Ermanno Cavazzoni? e Federico Fellini? ma anche la luna pur ancora senza voce di Georges Méliès e poi quella dei poemetti di Ritsos…) che ancora si fa udire e vuol parlare con la voce della poesia.
Ecco ora per esempio: La luna rotola dal fondo della strada, va verso la bambina che la chiama per giocare, in Album, infanzia (pag. 45), poème en prose d’ambientazione salentina, o anche i versi:
(…)
I tuoi deserti specchio
ai terrestri deserti.
I tuoi mari di polvere e crateri
velature di persi desideri.
Zaffiro trasparente,
scrigno di un tempo cenere,
arca di un tempo immemore,
le stesse ombre sul viso
di quando m’apparivi
immensa sugli ulivi,
o tramontavi, dietro l’alta torre
saracena, nel brivido del mare (in Notturno lunare, pag. 56).
E a proposito del distico finale della poesia appena citata, non si trascuri la presenza di quel legame plurimillenario tra la Terra d’Otranto e l’Oriente (ma anche dell’Europa con l’Oriente): il sistema d’avvistamento delle torri costiere salentine nacque proprio per difendere la penisola dalle incursioni prima saracene e poi turche, ma nella scrittura di Antonio Prete affiora spesso una, mi si consenta la citazione, “ansietà d’Oriente” che è, anch’essa, desiderio che i conflitti siano finalmente pacificati e consapevolezza di una radice comune. Infatti, proprio dal luogo simbolo del conflitto sanguinoso, ma anche della convivenza pacifica, Otranto, nasce il distico conclusivo della lirica omonima:
Raggia nella penombra l’albero della vita.
Quieto, l’andirivieni dei giorni
nella luce dello zodiaco.
Sovrani e animali sognano insieme
il giardino dell’origine.
Fuori, sopra il castello, un cielo di zaffiro.
Le palme fanno ricami d’ombra
sopra il bianco dei balconi.
In lontananza, vele di galee tremano
nel sole. O sono ventagli di quarzo
nell’ultima foschia?
Gli occhi della pietra scrutano
chimere in fuga verso oriente (Otranto, pag. 46)
E mi piace ricordare qui la grande civiltà ellenofona del monastero di Casole, la secolare convivenza tra Greci e Latini (testimonianza ne è ancor oggi la Grecìa salentina), quell’interessante fenomeno dei manoscritti tardo medioevali in dialetto salentino redatti con caratteri greci – ma le glosse più antiche in salentino furono redatte addirittura in caratteri ebraici poco dopo l’Anno Mille e proprio a Otranto…
Lingue, culture, incontri e scontri significano anche, per molti Salentini, emigrazione o al fine di trovare un lavoro dignitoso o per motivi di studio; ed ecco i binari, gli scompartimenti dei treni, l’Adriatico sulla destra di chi viaggia per via ferroviaria dirigendosi verso il Nord, una mano affettuosa che rassetta la sciarpa del partente, anche un verso d’ispirazione petrarchesca (passa la nave mia in Spleen a pagina 51), poi Milano, la città degli studi universitari, dell’amore, la metropoli con la quale il ragazzo venuto dal Sud deve riuscire a trovare un’intesa che in effetti viene, che si evolve, che costituirà anche il viatico per esperienze ancora più impegnative, ma anche molto appaganti – e saranno Parigi, New York, Lisbona, fino all’insegnamento universitario a Siena. Saranno le amicizie con grandi maestri della cultura contemporanea come Antonio Tabucchi e Edmond Jabès.
Ricordi, certo, rimembranze: (..) // Sale dal vuoto / il ricordo, s’infigura. Come dal bagno / chimico della carta nelle vaschette / – sviluppo, arresto, fissaggio – sorgeva / il bianconero della foto. // Solerte, sempre all’opera, la camera / oscura del tempo (in Nell’ultima neve, pag. 53); può apparire, come in un’istantanea alla Ghirri, Il cielo chirografato da uccelli neri (in Passeggiata, pag. 57) e non si può non pensare alle Chirografie – variazioni per Mallarmé (Siena, Edizioni di Barbablù, 1984) con quella bella presenza della mano che traccia segni nel nome di Mallarmé e della poesia nel caso del libro, degli uccelli (creature altrettanto amate da Prete e da Leopardi) che nel primo caso disegnano linee e curve di voli nella e sulla pagina del cielo inarcato sulla Romagna e sopra San Marino.
Ma la disseminazione di corrispondenze (non dimentico che l’albatro e il cigno sono pure indimenticabili creature di baudelairiana invenzione), d’interscambi tra i libri, di richiami a distanza prosegue e se ritorno a una poesia che s’intitola Il demone della presenza (pag. 58) penso anche al Demone dell’analogia – da Leopardi a Valéry: studi di poetica (Milano, Feltrinelli, 1986) di cui riporto da pagina 137 il seguente passaggio: Nelle regioni – dal paesaggio risuonante di voci – dove regna la poesia, cioè l’incessante volontà di dire (dictare, Gedichte), il sapere dialoga col non-sapere, la parola con l’immagine, il senso col suono, le cose con i loro nomi, il corpo con la sua lingua. Il verso è la forma di questo dialogo (…) L’io poetante è il cono d’ombra la cui sorgente è la lingua. Le sue domande sono sempre arretrate rispetto all’anteriore, s’aggirano in quella terra dell’origine che è la vera ossessione della parola poetica.
Tornando infatti al Demone della presenza dove i fotogrammi sfocati sono, in realtà, immagine dell’assenza della figura femminile ritratta, ci si rende conto che anche in questo caso il poeta vive il doloroso scarto tra ricordo e lontananza – addirittura irrecuperabile assenza – tra presenza e accadere del dire in poesia e assenza del detto, come se la poesia fosse sempre un dire in ritardo, uno scrivere secondo un argumentum e silentio,per dirla con Celan in colloquio con Char…
Mi sembra questo un viatico per proseguire il nostro attraversamento che continua a essere fatto di luoghi, dalla Parigi dove brilla il lampo della fuggitiva (in Fuggitiva, pag. 59) – Proust, Albertine, ovviamente, coniugati alla biografia sentimentale e culturale del poeta italiano – all’Alentejo dove appare la cara memoria dell’amico Antonio Tabucchi, autore di una fotografia (ancora una fotografia!) piena di cielo e di mare (Il mare si prendeva il cielo –in dall’Alentejo, pag. 60) e di un tavolo sul quale c’è una copia di Nostalgia, il libro dell’amico salentino (Nostalgia in lettere blu. / Natura morta. E azzurro, intorno: / il colore della lontananza – ibidem), per tornare nel Salento, alla bellezza eccelsa di Gallipoli e della sua costa, ma da dove il pensiero, costeggiando il grande Golfo, arriva fino a Taranto la città che ha disfatto il suo volto di luce marina. Più oltre si alza la fabbrica che vomita miasmi. (…) Le alte bocche fumanti coprono di cenere il ricordo (in La luce, la cenere,pag. 61).
Il titolo della successiva sezione, Lengua mara (lingua amara), richiama alla memoria di qualunque Salentino i versi di un canto popolare (L’acqua te la funtana è ‘mara ‘mara) e in effetti esiste un parallelismo tra le due espressioni rintracciabile nel concetto comune dell’amarezza attribuita a due elementi vitali e quindi irrinunciabili e derivata dalla condizione esistenziale che conosce la perdita della dolcezza, l’allontanamento da essa, condizione esperta di partenze, rinunce, nostalgie, occasioni perdute:
La stessa luna, ci tuerni, sobbra lu ciardinu,
lu stessu ientu a mmienzu li calipsi (in Sobbra la rena, pag. 65);
La stessa luna, se torni, sopra il giardino,
lo stesso vento in mezzo agli eucalipti (Sopra la sabbia);
(…)
acini ti tiempu, comu lu rusciu
ti lu mare ca cresce e rotula parole
(…)
comu la manu ca ti giusta li capiddhi
quannu sta parti e lu giurnu lucesce
‘mienzu li case, ‘mienzu li ciardini (in ‘Na ‘intata, pag. 66);
(…)
acini di tempo, come il rumore
del mare che cresce e rotola parole
(…)
come la mano che ti aggiusta i capelli
quando stai per partire e sorge il giorno
in mezzo alle case e in mezzo ai giardini (Una ventata)
(…)
Lu tiempu, ‘nu lanzulu ca lampicia (in Poi comu nee, pag. 68) – il tempo, un lenzuolo che lampeggia: lu rusciu ti lu mare è altro canto tradizionale amatissimo nel Salento e in queste quattro poesie in dialetto Antonio Prete impiega la lingua prima, letteralmente quella materna,appresa fin dalla più tenera infanzia, lingua del sentire più intimo e del ricordare forse più struggente, vichianamente legata al sentire più vicino all’origine (e in questo senso è come si chiudessero contemporaneamente due cerchi che avevamo aperto in precedenza, ossia il sigillo materno nella vita e nella lingua del poeta e il suo viaggio a ritroso verso l’origine, Andenken / rimembranza). Dall’altro canto qui Prete sembra inverare la tesi che Giorgio Agamben sostiene nel curare la collana Ardilut della Casa editrice Quodlibet e cioè che poeti come Zanzotto, Sovente, Pasolini, Uliana siano esempi di un bilinguismo immanente alla poesia, di una diglossia nella quale il dialetto è la lingua prima e l’italiano la lingua appresa della grammatica e della regolamentazione linguistica e che, nello stesso tempo, l’interscambio continuo tra dialetto e lingua nazionale e la loro concomitanza ne definisca incessantemente il rispettivo continuo nascere e continuo morire.
Il Taccuino blu (sezione successiva) canta il rapporto privilegiato di Antonio Prete con Milano.
Ecco, per esempio, Milano, inverno e primavera 1968:
Acerba intimità con l’impossibile.
Una pioggia di volti lungo il giorno,
le strade solidali con il grido.
Era cielo, era carne il desiderio.
Prosodia della rivolta, Vietnam,
Praga, la lontanaza ferita era
nei passi,nei pensieri.
Stava ognuno
dentro il respiro della moltitudine.
Il sogno divora l’orizzonte (pag. 71);
È forse ancora qui, lungo le strade
percorse dai tram,
nel pulviscolo che sale dai viali
e fa opaca l’aria, quel nostro antico discorrere d’amore (in Quel che è perduto, pag. 75) e si noti questo “paesaggio” urbano che va a collocarsi tra le numerose rappresentazioni paesistiche presenti in Tutto è sempre ora.
Certamente un taccuino consiste di notazioni intorno a luoghi, persone, fatti e può essere blu non tanto, mi vien fatto di riflettere, per l’eventuale colore della sua copertina (ipotesi plausibile, ma troppo ovvia se non banale), quanto piuttosto perché proprio il blu è il colore della Ferne, della lontananza (lo avevamo già constatato poco prima), del fiore di Novalis, dei cieli e dei mari di Caspar David Friedrich, richiama l’azur di Mallarmé, forse anche il blu di Yves Klein inteso come colore dell’assoluto o dell’aspirazione all’assoluto.
Ho molto amato una poesia esplicitamente dedicata all’artista Jean-Paul Philippe, attivo nelle Crete senesi e autore dell’insieme scultoreo (sette elementi di basalto etrusco) che dà il titolo al componimento di Prete:
Site transitoire
Dove l’onda di creta trascolora
rugosa e s’abbrunisce sul crinale
difeso dalla linea dei cipressi,
dove un resto di dolcezza trascorre
sulla pelle arida d’un giallo perso
nel verde settembrino,
il tuo basalto
si leva contro l’incendio che avvampa,
laggiù, tra terra e cielo.
Corpo glorioso sull’altare viola
del tramonto.
Finestra che incornicia
torri e destini, nuvole e pensieri.
La pietra grida alla sera il suo azzardo:
poter dare una forma
a questa privazione d’infinito (pag. 80).
Torno a far notare che il poeta parla “a voce piena” rivenendo ai temi cari del paesaggio, usando il classico “tu” della poesia occidentale, componendo perfetti endecasillabi che, nei versi 6 /7 e nei versi 11/12, si scompongono prima in un settenario più un quinario (la sinalefe tra sesto e settimo verso permette la ricostruzione dell’endecasillabo), mentre l’undicesimo è un quaternario che, ricomposto con il successivo settenario, torna a formare un endecasillabo – i rientri tipografici assumono un significato sia metrico-prosodico che contenutistico: si tratta del dialogo tra il paesaggio senese e l’arte contemporanea, esattamente come la forma direi classica della poesia di Prete dialoga con la piena contemporaneità e ne esprime i molteplici, complessi, spesso fratturati aspetti. Non è un caso che il distico finale appaia come una dichiarazione di poetica capace di motivare movenze e realizzazioni di Tutto è sempre ora – la ricerca della forma non è fine a sé stessa: così come l’amico Philippe impiega l’elemento primigenio della pietra (e per qualsiasi Salentino, ma vorrei dire anche per qualunque Italiano, la pietra è altro elemento vitale e riconoscimento di un’identità) per farne una finestra sul visibile e sull’invisibile, sul palpabile e sull’impalpabile, allo stesso modo, sono convinto, il poeta impiega (leva) la materia della lingua nei cieli, nelle stagioni, nei giorni del mondo.
Ha scritto Antonio Prete nel Pensiero poetante – Saggio su Leopardi (Milano, Feltrinelli, 2006): Non verso la definizione della poesia, delle sue ragioni, va la cura meditativa di Leopardi, ma verso il riconoscimento di un pensiero che si fa lingua, e nella lingua evocazione, forma, ritmo. (pag. 198, testo della Conferenza tenuta al Collège de France il 3 marzo 2006).
E pure leopardianamente e baudelairianamente Antonio Prete affonda sempre il suo sguardo nella natura per comprendere e riconoscere i destini dell’uomo contemporaneo, per dare, in forma di scrittura, voce al desiderio di rapportarsi con il mondo, di dialogare con esso.
Ma quel che di orrido nel mondo accade DEVE esser detto anche in poesia (sterili e vane sarebbero, altrimenti la lingua e la poesia):
Dire degli alberi…
Dire degli alberi, dei loro ombrosi
pensieri. Dire del vento che li abita
(…)
Con quelle stesse sillabe non tacere
sulle stragi, sui loro mandanti,
sui corpi fatti cenere e memoria,
sui desideri crivellati di nero.
Priva di lingua, stormendo,
la terra piange sulla ferita
che è ancora ferita (pag. 83).
E anche, visitando la tomba di Albert Camus: Stanno nella luce meridiana i suoi pensieri: dove l’esplosione della primavera non è sipario sul dolore del mondo.
Piove sul dorso verde del Luberon (in Lourmarin, tomba di Camus, pag. 86), poème en prose che riprende la tradizione del tombeau pour… inchiavardandola nella nostra contemporaneità capace di essere davvero violenta.
Luoghi, dicevo: la Harlem di Mattino domenicale a Harlem (pag. 87), per esempio, già oggetto di un libriccino, Le saracinesche di Harlem edito nel 1989 dall’Obliquo di Brescia, e che qui ritorna ricordando anche la sofferenza in schiavitù della gente d’origine africana, insieme con la bellezza e la profondità espressiva del blues e del jazz: Il ritmo della luce e dell’ombra batteva / sulle scale di fuga, sulle saracinesche dipinte – sono pressoché sicuro che, tra l’altro, Antonio Prete abbia qui in mente i bellissimi versi di Ingeborg Bachmann (Harlem, appunto: der Regen springt von allen Feuerleitern / und klimpert auf dem Kasten voll Musik – la pioggia balza da tutte le scale antincendio / e tintinna sul casermone colmo di musica) perché un taccuino contiene anche le voci dei poeti più amati, i versi più ammirati. E infatti, proprio nelle saracinesche di Harlem l’autore scrive: Sul quaderno c’è scritto: New York. Le immagini della città stanno, qui nel taccuino, come la luce del giorno nel calendario: il nero delle parole è soltanto un varco perché le strade possano riaccendersi di luci. (…) Washington Square è invasa da una luce marina. (…) Per allusione, oppure per folclorica somma di citazioni, si allineano città immaginarie entro una sola città. Così si sono affiancati o sovrapposti o intrecciati ritagli di paesi che l’emigrazione ha custodito nella memoria (…) concrzioni della nostalgia. (…) Dall’alto di una scala a pioli un pittore di saracinesche mi racconta di come proseguirà il suo dipinto.(…) Mi sorprendo a pensare all’estate scorsa, al paesaggio della campagna dove sono nato. Sto giuardando dall’arco della masseria fortificata lo stradone che ho percorso in bicicletta e che accerchia la macchia prima di allungarsi tra i vigneti. (…) mi domandavo se alludeva davvero a questo parco Walter Benjamin quando dava il titolo di Zentralpark ad alcuni dei suoi frammenti baudelairiani. Dunque, i «passages» parigini come cifra della nascita del moderno e Central Park come emblema del suo compimento? Oppure, i «passages» come segno di una permanenza del poetico nella equivalenza delle merci e Central Park come sintomo di una libertà discreta nell’intrico di una lingua che più non sa nominare la natura? (…) In un’aula della New York University commento l’Infinito di Leopardi: oltre la finestra le facciate dei grattacieli imprigionano triangoli di cielo. Tra le parole mi si insinuano pensieri impalpabili: forse la distanza tra la siepe e la metropoli, oppure l’idea di un limite che è un’intera città, di un limite che ha il suo oltre iscritto in un marciapiede insozzato o in una vetrina vuota oppure nel fischiettare del ragazzo nero che scende nella subway danzando. (…) il libro è davvero oltre l’affanno quotidiano degli uomini? I saperi sono davvero oltre il brulichio della vita individuale? O non c’è piuttosto, all’origine di questo paragone, l’idea vecchissima e logora, di una «città dello spirito» fortificata e quieta, opposta a una città del mondo, vana e perturbante? (Le saracinesche di Harlem, pagg. 7, 8, 9, 11, 14, 15, 16, 20).
Una breve nota:Washington Square compare anche in Tutto è sempre ora come luogo dal quale il poeta contempla la tragica assenza delle “torri gemelle”, a conferma ulteriore della ramificazione vastissima dell’opera di Prete e della circolazione continua di temi e di figure al suo interno.
L’amore, scrivevo: perché Prete è anche un poeta d’amore, di un amore spesso velato di malinconica dolcezza e di grande pudore: Declina, ma non muore quel che è stato (in Amore, e ombra, pag. 89).
Poi ecco concretizzarsi tra le pagine del libro la figura di Louise Labé, ritornare il grande tema del tradurre che non significa, evidentemente, soltanto tradurre da una lingua all’altra, non è soltanto stare all’ombra dell’altra lingua come recita il titolo di un libro di Antonio Prete dedicato proprio al tema del tradurre: tradurre è anche provare a dire, con le parole della poesia, con la lingua della poesia paesaggi, pensieri, situazioni, sogni, ricordi, libri altrui “scritti” o “detti”, nella loro versione originale, in lingue altre che sono di volta in volta quella della natura e dell’opera dell’uomo, quella della psicologia e della storia personale, quella degli accadimenti individuali e collettivi, quella dell’inconscio, quella delle scritture di autori amati:
Portare nella mia lingua la febbre
dei tuoi amori è intorbidare l’acqua
di un torrente che balza sopra marmi
chiari. Ma c’è qualcosa che passando
tra le lingue in ogni epoca rimane
lucente, una moneta che non perde
valore, essendo del vuoto la forma,
mai si consuma perché è già mancanza,
voglio dire il desiderio. Tradurre
è prestare parola al desiderio,
non colmare la sua pena, non rompere
il nodo che lo lega all’impossibile (in Traducendo Louise Labé, pag. 91).
Se infatti apro All’ombra dell’altra lingua – per una poetica della traduzione (Torino, Bollati Boringhieri, 2011) vado a cercare quanto segue: La traduzione, certo, è una forma di interpretazione: nel nuovo testo non si trasporta solo la microfisica del testo originale ma anche la proiezione di quel testo, della sua tessitura, nel sistema di comprensione e di passione di colui che traduce. Ogni passaggio verso il nuovo testo è preceduto da una decifrazione. Ogni corrispondenza è costruita su una comprensione che ha già trascritto l’ascolto nel proprio orizzonte d’attesa, e ha fatto della lettura già un atto di esplorazione e interrogazione, un atto di interpretazione. Si potrebbe persino dire che la più limpida interpretazione di un testo è la sua traduzione (op. cit., pag. 43).
E da un altro libro (leggibile proprio qui su Zibaldoni e altre meraviglie https://www.zibaldoni.it/2005/07/18/chirografie/ )isolo il passo seguente: Corte di poeti in traduzione (il vento scuoteva gli eucalipti). Il sibilo della carta rappreso nel dito che sfoglia. Complicità del verso: coi solchi rossi tra la vigna, con lo sferragliare delle biciclette sul viottolo, con la luna sanguigna sopra le palme, con gli occhi del gatto avvampati d’agata, con la voce della madre che narra in una sua lingua mia, storie arabe e bizantine, fedele al canto e all’impasto di vocali e sibilanti, impennata in improvvise volute di toni alti, poi adagiata in calde fonesi, sinuose come le grotte sul mare.
Vale a dire: quando ancora non si conoscono le lingue si cercano i poeti in traduzione, li si divora con la mente, li si desidera in lingua originale, poi giunge, grazie all’età e agli studi effettuati, la possibilità di leggerli nella loro lingua – e si comincia altrettanto avidamente a tradurli, così come avidamente si traduce in scrittura il mondo.
E arrivo ora al poème en prose Studio sopra la luce di Lisbona (pag. 93 e 94) che, degno omaggio alla città indimenticabile, pervaso di spirito tabucchiano e pessoano (Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole: in Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Milano, Feltrinelli, 2013, traduzione di Maria José de Lancastre e Antonio Tabucchi, pag. 75) si articola in cinque parti nelle quali scrittura e sguardo (Lisbona è città in cui forte è il desiderio di diventare pressoché solo sguardo) sono toccate da una grazia prossima alla felicità pura di chi, viandante nel mondo, è anche scrittore: Un angolo del chiostro, nel Mosteiro. (…) Dietro gli archi del chiostro le nervature rosa e oro della pietra d’Alcantara. Il vento increspa le acque del Tago, che ora è lucente, con guizzi di verdeombra che lo sferzano, e a tratti navigano veloci sopra la luce. (…) Indiscrezione violenta della luce nel quartiere dell’Alfama, prima del tramonto. (…) un cielo, con larghi lembi di turchese che confinano con l’arancione dell’orizzonte. La luce, che ha dilagato sulle altane e sui miradouros, ora rivela i suoi riflessi solo se ci si fa prossimi a un oggetto, scrutandolo mentre l’ombra già lo ricopre. (…) della Cattedrale (…) il rosone colpito dalla luce del tramonto: le sue dodici foglie scure – i dodici mesi dell’anno – viste dalla penombra dell’interno si accenderanno di un fulgore che qui è negato, bastando, al raccoglimento, la malinconia che è nell’aria. (…) Al mattino, su alla Graça. (…) in basso l’onda di tetti rossi e cinabro, più oltre la linea blu del fiume.
In lontananza, un tremito di trasparenza che non si fa lampo. È l’attesa del ritorno salvifico da oltremare?
Nel testo si materializza un ritmo armonioso di pieni e di vuoti, di spazi chiusi e aperti, di colori più chiari e più scuri, di prospettive che si dilatano a una svolta, in fondo a una scalinata, dietro un angolo e le poche parole portoghesi incastonate nel testo italiano suscitano la musica della prossimità che, nella scrittura, già si va facendo lontananza e saudade.
L’ultima parte, Dell’apparenza (prosa d’inverno), è una raccolta di tredici magistrali prose nelle quali la ricorrente oniricità e visionarietà si nutre di una scrittura che sembra godere della propria libertà inventiva, ma anche portare a piena realizzazione una tendenza che non esito a immaginare essere appartenuta a Prete fin da ragazzo, da quando cioè è cominciata la sua avventura con la parola scritta e che si è poi snodata traverso la sua attività di studioso e, ovviamente, di scrittore: un fantasticare lasciandosi incantare dal mondo, un amore per la forza immaginifica della mente e per le fascinazioni che emanano dall’arte, dal tempo, dai luoghi.
Cavalli sapienti e araldici, donne fatte d’aria e di concretissima bellezza, clessidre e nuvole, ancora le stelle, le lettere dell’alfabeto, aeree figure sospese tra visione e incanto, l’ostinata verità dell’apparenza ch’è quasi la calviniana leggerezza, suoni, il funambolo dell’ultima prosa, testo conclusivo anche del libro: Elevazione // Quella sera, nella strada, le foglie degli alberi erano parole. I vetri delle finestre, i balconi, i marciapiedi erano parole. L’aria stessa era fatta di parole, e per questo era assordante. (…) In alto, sul fondo della strada, comparve il funambolo: sul filo teso tra due palazzi,aveva appena cominciato l’attraversamento. Venne, improvviso, il silenzio. La voce di un violino si levò nell’aria. (…) Le foglie tornarono ad essere foglie. (…) Le foglie degli alberi, i vetri delle finestre, i balconi, i marciapiedi erano di silenzio. Anche il violino ora taceva.
In alto, il funambolo continuava il suo cammino (pag. 112).
Così comincia il primo capitolo (Antropologia poetica) di La poesia del vivente – Leopardi con noi (Torino, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 15): «Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella»: è un frammento dello Zibaldone datato 1° ottobre 1820. La frase, che può sembrare una scaglia fantasiosa e stralunata nella fitta trama di un pensiero filosofico e filologico, può fare da epigrafe a una riflessione sull’antropologia poetica di Leopardi. Perché espone, nell’improvviso di un’immagine, elementi propri del procedimento conoscitivo leopardiano: la leggerezza, ad esempio, con l’implicito senso di elevazione, cioè di sguardo rivolto dall’alto verso il linguaggio del mondo e delle cose, così come prenderà forma nell’operetta morale Elogio degli uccelli; la presenza cosmografica («una stella») come principio che sostiene persino ciò che è più familiare («una casa»); infine il legame («con funi») tra quel che è inattingibile, inappartenente, e quel che è terrestre e quotidiano, insomma il legame tra lontananza e prossimità, tra oltretempo stellare e condizione umana.
Concludo richiamandomi ancora ad Agamben perché voglio riflettere sulla significativa presenza di quelli che spesso ho definito poèmes en prose e che Prete esplicitamente chiama, almeno per l’ultima sezione del libro, prosa.
Scrive Agamben in Idea della prosa (Macerata, Quodlibet, 2002): La versura (…) è un gesto ambiguo, che si volge a un tempo in due direzioni opposte, all’indietro (verso) e in avanti (prosa). Questa pendenza, questa sublime esitazione fra il senso e il suono è l’eredità poetica, di cui il pensiero deve venire a capo. Per raccoglierne il lascito, Platone, rifiutando le forme tràdite della scrittura, tenne fisso lo sguardo su quell’idea del linguaggio che, secondo la testimonianza di Aristotele, non era, per lui, né poesia né prosa, ma il loro medio (op. cit., pagg. 20 e 21).
Facendomi forte delle affermazioni agambeniane voglio allora sostenere che un libro come Tutto è sempre ora realizza questo medio, trovando e attuando una scrittura che, superati i rigidi e artificiosi confini tra almeno due generi, è, appunto, scrittura in atto e scrittura generatrice di altra scrittura.