E.T. L’extraterrestre di Steven Spielberg narra dell’incontro tra due esseri che, appartenenti a due galassie che luccicano tra loro distanti, si riscoprono simili e la distanza si discioglie in un movimento di prossimità che è l’incontro degli sguardi. E.T. si schiude e si dipana come una fiaba d’altri tempi in cui l’alieno non è creatura mostruosa, non sguscia via dall’incubo per insidiare il quotidiano, ma è essere fiabesco che introduce la meraviglia nell’ordinario. Il primo a cogliere il meraviglioso sarà un bambino. Elliot. Tutto, in “E.T.” sembra essere a dimensione di bambino, come se la telecamera potesse accogliere nel suo occhio solo quello che si muove nell’orizzonte di uno sguardo infantile (quello di Elliot e dei suoi fratelli, Mike e Gertie) e gli adulti ne fossero esclusi. Il piccolo alieno rientra in questa dimensione. Perché nel mondo di E.T. crede solo chi ha nello sguardo un’innocenza non inquinata dal velo di un’esperienza che porta al disincanto ma ha gli occhi ancora traboccanti di stupore, che non si impauriscono ma si fanno grandi di fronte alla meraviglia del diverso. Quando lo sguardo di Elliot si posa su E.T. non vede la creatura piccola e marrone e grinzosa, ma solo il blu di due occhi grandi che sembrano globi, languidi e sinceri. Elliot, guardando quegli occhi, si smarrisce in qualcosa di lontano, di una lontananza che, però, non è distanza ma racconta un calore che lo rassicura, che lo stringe in un abbraccio. L’amicizia tra i due diventa simbiosi e c’è una cosa che Elliot inizia a fare da subito e non smette mai di fare: parla. Elliot parla ad E.T. incessantemente e il linguaggio diventa il più forte strumento di accoglienza. L’uso della parola da parte di Elliot è un tentativo di narrazione ininterrotta della propria condizione di essere umano, è l’espressione del desiderio di accogliere l’alieno nella propria dimensione terrena. Non per umanizzarlo ma per farlo sentire amato. L’avventura di E.T. è un tentativo di ritornare a casa con l’aiuto di qualcuno che non lo fa sentire estraneo ma che cerca di donargli una seconda casa. L’unicità del loro legame si esplica definitivamente nelle parole di Elliot al termine dell’operazione di separazione delle loro menti: “io non so che cosa sentire, non riesco a sentire più niente, ormai. Stai andando da qualche altra parte, adesso”. Ma il luogo in cui andrà l’extraterrestre non sarà poi così lontano: quando rimangono da soli per la prima volta, mentre E.T. sguazza nella vasca da bagno, Elliot si allontana per un momento e gli grida, dall’altra parte della casa, di stare tranquillo, “io sarò sempre qui”. Il “qui” diverrà un luogo che oltrepassa il reale, sarà un luogo al di là di qualsiasi dimensione terrestre o spaziale, umana o aliena. È la dimensione del cuore. “Io sarò sempre qui” ripete Elliot prima che E.T. ritorni sull’astronave e aggiunge “crederò in te per tutta la mia vita”. Non usa il verbo “ricordare” ma “credere”. Perché l’incontro con E.T. è un miracolo, un atto di fede. Credere in E.T. è credere nella possibilità che esista un’alternativa all’ordinario e al prevedibile, che le bici possano librarsi in volo, che il diverso non faccia paura.
“Resta” è l’ultima parola che Elliott rivolge a E.T. Ed E.T. è restato. Per quarant’anni, fino ad oggi.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 30 luglio 2022]