Bruto trema davanti a Cesare, il tiranno. Perché? L’etica stoica ha riempito di contenuti psicologici la categoria formale del dovere, e Bruto si uccide. Bisogna presupporre in lui alcuni momenti di indagine etica che occorre seguire.
La Stoa considera la scienza del bene e del male il fondamento della moralità. Epitteto rimuove questo principio dalla posizione centrale che ha nell’etica stoica e lo sostituisce con la prohairesis, una predecisione che il filosofo considera più importante del possesso della conoscenza. E’ stato così compiuto un passo avanti verso il riconoscimento della volontà come fattore decisivo nella vita umana. La prohairesis si traduce necessariamente in un appetire, cioè in impulsi pratici, e implica la scelta di un determinato modo di vivere. Tuttavia rimane sempre un atto dell’intelletto in quanto il volere è determinato soltanto in un secondo momento dalla rappresentazione della mèta indicataci dalla decisione dell’intelletto medesimo.
Bruto, ricorrendo all’immagine dell’eroe che sorride amaro alle ombre tra le quali scende morendo
Quando nell’alto lato
l’amaro ferro intride
e maligno alle nere ombre sorride
(vv. 43-45),
dapprima esalta come magnanimo l’atto di chi si toglie la vita, e dopo ne afferma la legittimità. La predecisione è diventata giudizio. Il suicidio è difatti per l’uomo un diritto che nessuna legge naturale e divina può negargli. Consiste in questo l’elemento intellettualistico che Leopardi ha assimilato dalla dottrina del filosofo stoico.
La logica consequenziaria di Epitteto
Il primo compito della filosofia consiste nel regolare, in sede teoretica e pratica, gli appetiti mediante la distinzione tra appetiti diretti al nostro benessere soggettivo (oréxeis, cioè gli appettiti da assecondare ed èkklìseis, cioè quelli da scansare) e gli ormaì, cioè gli istinti che riguardano il nostro comportamento e il nostro rapporto nei confronti del mondo che ci circonda. Segue poi la seconda sfera della nostra condotta morale, di cui quanto precede è premessa. Essa consiste in un retto comportamento e nell’adempimento dei nostri doveri verso il prossimo. Il filosofo però ha bisogno di un terzo strumento, e cioè della logica che dà un fondamento scientifico all’etica e fornisce all’uomo la base incrollabile per le sue decisioni e per la condotta complessiva. Di qui nasce l’interiorità individuale: chi riesce a rifugiarsi in essa e a sottrarsi a ogni sollecitazione proveniente dall’esterno, vive e muore veramente libero.
Parti costitutive della logica normativa e consequenziaria sono la dialettica, conforme a quella del dialogo socratico, che sintetizza al massimo i pensieri, e la retorica, che invece li sviluppa.
Nel Bruto minore leggiamo:
Or poi ch’a Terra
sparse i regni beati empio costume,
e il viver macro ed altre leggi addisse
quando gl’infausti giorni
virile alma ricusa,
riede natura, ed il non suo dardo accusa?
(vv. 55-60)
La vita, pensa Bruto-Leopardi, non procede più con le leggi della natura, ma segue leggi artificiose, e perciò togliersi la vita non è più un atto contro natura. La felicità primitiva che l’uomo ha goduto non esiste più; dunque, la natura non può fare colpa a chi rinunzia volontariamente, prima del tempo, alla vita. Nei vv. 59-60, invece, è modellata una sintesi di pensiero così efficace da poter essere commentata con le parole dello stesso Leopardi, tratte dal Dialogo di Plotino e di Porfirio:
“Perché dovrà la natura primitiva, la quale non dà più legge alla vita, dar legge alla morte? Perché non dee la ragione governar la morte, poiché regge la vita?“[9].
E in Zib. 87 sotto la data dell’8 gennaio 1820 il poeta ha definito
“(…) quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele dopo forte lungo e irritato desiderio, il qual sorriso è l’ultima espressione della estrema disperazione e della somma infelicità (…)”.
Alla disperazione è subentrato il sarcasmo. Qui la logica stoica ha bruciato nel Leopardi tutte le gradazioni del patetico, come accade nei momenti di dissoluzione sociale, allorché il sarcasmo diventa una forma d’arte che si sostituisce alla profondità dell’intelligenza e distrugge il limite del reale, con la coscienza che quella distruzione e quanto sta al di là del limite comportano la rivelazione dell’anima, della vita spirituale e di tutto ciò che essa ha di inimitabile e di idoneo a distinguere l’uomo d’eccezione dal volgo.
Bruto chiude, morendo, l’età dell’immaginazione e perciò distrugge il limite dell’arida e imbelle realtà nella quale si rifiuta di vivere. Bruto-Leopardi muore dopo aver rivelato a se stesso il suo sogno virile, e afferma così, col suicidio e con le estreme parole, il diritto che hanno i generosi di sottrarsi con la morte all’iniqua prepotenza del fato.
La concezione leopardiana di virtù stoica
Il canto si chiude con il suicidio di Bruto. E’ un atto morale che deriva il suo contenuto psicologico da una complessa interazione di energie psichiche di origine stoica. Cerchiamo di rinvenirne la presenza e le linee di sviluppo.
La spiritualità stoica ha un senso di rispettosa meraviglia per la grandiosità, il finalismo e la bellezza del cosmo che non può essere se non l’opera di una divinità che crea un mondo conforme a ragione. Le verità naturali sono perciò la testimonianza di un’altissima autorità, in quanto con una teleologia esteriore tutti i fini e tutti gli spiriti vengono trasferiti nella natura. Leopardi riproduce questo principio nel Bruto minore a proposito del fulmine di cui gli antichi hanno avuto un terrore religioso, perché lo hanno considerato strumento dell’ira divina.
dunque degli empi
siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
per l’aere il nembo, e quando
il tuon rapido spingi,
ne’ giusti e pii la sacra fiamma stringi?
(vv. 26-30)
E a proposito delle leggende che narrano essersi oscurato il sole e gli astri negli eventi più terribili dell’umanità, così il poeta continua:
…e non le tinte glebe,
non gli ululati spechi
turbò nostra sciagura,
né scolorò le stelle umana cura…
(vv. 102-105).
Dove però Leopardi segue più da vicino la dottrina stoica, è nel richiamo che egli fa alla legge di natura che governa la successione degli eventi con la forza di necessità ineluttabile a proposito del contegno dei vili e di quello dei magnanimi di fronte alle ingiurie del fato.
Si rinviene in Omero la moira, cioè il fato che tutto regge, in Democrito invece l’ananke, la necessità con la quale la natura produce ogni cosa, e in Cleante infine la distinzione tra pronoia, cioè la provvidenza, e l’heimarméne, a cui la Stoa ha dato un contenuto nuovo. Questo contenuto si realizza nel dimostrare con metodo filosofico il libero atto di volontà.
L’essere vivente si distingue dalle forme di vita inferiori in quanto ha istinti, gli òrmai, che abbiamo richiamato nelle pagine precedenti, che lo spingono a cercare tutto ciò che incrementa la sua vita e a evitare il suo contrario. E’ il momento scientifico della logica stoica.
L’hermarméne pone nel nostro intimo la facoltà dell’autodeterminazione che può sottrarsi alla sollecitazione esterna e resta quindi la causa effettiva dei nostri istinti e delle nostre decisioni. Leopardi ha voluto rappresentare nel Bruto minore la libertà del volere che gli Stoici hanno individuato per la prima volta in Grecia al tempo delle guerre persiane, quando decadde la concezione dello Stato come legame di sangue che unisce un popolo. Essi hanno anche rinvenuto la sua causa ultima, e cioè il conflitto tra il principio di causalità e la coscienza che l’uomo ha della propria libertà.
Preme il destino invitto e la ferrata
necessità gl’infermi
schiavi di morte: e se a cessar non vale
gli oltraggi lor, de’ necessari danni
si consola il plebeo
(vv. 3-5).
La ferrata necessita in Leopardi non è la legge inesorabile che domina la vita universale, ma l’heimarméne stoica che non può intendere la rassegnazione, che è virtù cristiana ed ebraica, ma non può essere la virtù di Bruto, il quale sa che rassegnarsi all’inevitabile, rinunciare alla speranza non diminuisce, ma accresce la sofferenza.
Da queste premesse scaturisce la genesi della virtù stoica del canto.
In Zib. 306 si legge:
“(…) Teofrasto definiva la bellezza sioposan apatén(ib.19.) Pur troppo bene: perché tutto quello che la bellezza promette, e par che dimostri, virtù, candore di costumi, sensibilità, grandezza d’animo, è tutto falso. E così la bellezza è una tacita menzogna. Avverti però che il detto di Teofrasto è più ordinario perché àpàte non è propriamente menzogna, ma inganno, frode, seduzione, ed è relativo all’effetto che la bellezza fa sopra altrui, non al mentire assolutamente (…)”.
E’ indicato in questo pensiero il principio della Stoa per cui materia e spirito non sono separati e perciò la virtù dell’uomo deve ricercarsi nella sua particolare natura, e cioè nella ragione.
In Zib. 316-318 si legge:
“(…) mi pare che Teofrasto forse solo fra gli antichi o più di qualunque altro, amando la gloria e gli studi, sentisse per altro l’infelicità inevitabile della natura umana, l’inutilità de’ travagli, e soprattutto l’impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo ed anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per sé, e la virtù sola e la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità. Laonde Teofrasto (…) si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a’ dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigore naturale. Ma così anche si vede che Teofrasto, conoscendo le illusioni, non però le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava, anzi si faceva biasimare dagli altri antichi filosofi, appunto perché onorava le illusioni molto più di loro (…)“.
E tenendo conto che proprio chi conosce e sente più profondamente la vanità delle illusioni, le onora e desidera e predica più di tutti gli altri, Leopardi conclude così:
“Che se Teofrasto vicino a morte le abbandonò e quasi le rinegò come Bruto, questo stesso è una prova di quanto le avesse amate perché non si ripudia quello che non s’è mai amato, né si abbandona quello che non s’è mai seguito. Né si mente senza vantaggio in punto di morte, ec. (11. Nov. 1820.)”..
Abbiamo qui una chiara allusione alla memoria antica secondo cui Bruto profferì, poco innanzi alla morte, voci lacrimevoli e spaventose, ma vere, in disprezzo della virtù. Accade cioè che Bruto senta la vecchiezza del mondo e la deserta solitudine dell’umanità e non trovi più nelle cose di questa terra la ragione della virtù e dei fatti magnanimi; le grandi illusioni dell’età repubblicana sono spente e Roma è matura per la rovina che sarà consumata con l’arrivo dei barbari. Per converso, per Leopardi, con la sconfitta di Bruto si chiude l’età eroica del mondo antico e perciò Bruto diventa simbolo di un principio morale e intellettuale.
E allora, in che cosa consiste la virtù stoica di Bruto-Leopardi?
Procediamo per esclusione. Virtù non è l’amor proprio che ha per oggetto i beni materiali prima che la stima, l’onore, la dignità della persona, che potremmo dire dire in certo modo beni spirituali. Virtù è ciò che accresce l’idea di se stessi e ingrandisce l’opinione e la stima delle prerogative che ciascuno sente essere connaturate alla propria natura, come il coraggio, l’eroismo, eccetera. L’uomo non si spoglia dell’amor proprio senza cessare di vivere. Se l’uomo trova una medesimezza e una comunione di interesse con quelli che lo circondano, l’amor proprio dilata il suo oggetto, ed ecco allora l’amor patrio, senza il quale non c’è società e quindi non c’è virtù, la quale, in definitiva, non è altro che l’applicazione e l’ordinazione dell’amor proprio al bene altrui. Secondo Leopardi, nessuna modificazione dell’amor proprio può condurre nel suo tempo alla virtù. E così l’uomo non può essere virtuoso per natura, e la mancanza delle illusioni, e delle condizioni perché si destino, si mantengano e si realizzino, produce inevitabilmente l’egoismo individuale, che è la variante peggiore dell’amor proprio e quella che maggiormente esclude ogni genere di virtù.
Letti questi princìpi, il lettore rifletta sui seguenti pensieri di Leopardi (in Zib. 1563-1568):
“La virtù, l’eroismo, la grandezza d’animo non può trovarsi in grado eminente, splendido e capace di giovare al pubblico, se non che in uno stato popolare, o dove la nazione è partecipe del potere. Ecco com’io la discorro. Tutto al mondo è amor proprio. Non è mai né forte, né grande, né costante, né ordinaria in un popolo la virtù, s’ella non giova per se medesima a colui che la pratica. Ora i principali vantaggi che l’uomo può desiderare e ottenere, si ottengono mediante i potenti, cioè quelli che hanno in mano il bene e il male, le sostanze, gli onori e tutto ciò che spetta alla nazione. Quindi il piacere, il cattivarsi in qualunque modo, o da vicino o da lontano, i potenti, è lo scopo più o meno degli individui di ciascuna nazione generalmente parlando. Ed è cosa già mille volte osservata che i potenti imprimono il loro carattere, le loro inclinazioni ecc. alle nazioni loro soggette.
Perché dunque la virtù, l’eroismo, la magnanimità ec. siano praticate generalmente ed in grado considerevole da una nazione, bisognando che questo le sia utile, e l’utilità non derivando principalmente che dal potere, bisogna che tutto ciò sia amato ec. da coloro che hanno in mano il potere, e sia quindi un mezzo di far fortuna presso loro, che è quanto dire far fortuna nel mondo.
Ora l’individuo, massime l’individuo potente, non è mai virtuoso. Parlo sì del principe, come de’ suoi ministri, i quali in un governo dispotico, necessariamente son despoti, gravitano sopra i loro subalterni, e questi sopra i loro ec. essendo questo una conseguenza universale e immancabile del governo dispotico di un solo; cioè che il governo sia composto di tanti despoti, non potendo il dispotismo essere esercitato dal solo monarca. (…)
L’individuo non è virtuoso, la moltitudine sì, e sempre (…). Quindi in uno stato dove il potere o parte di esso sta in mano alla nazione, la virtù ec. giova, perché la nazione (che tiene il potere) l’ama; e perché giova, perciò è praticata più o meno, secondo le circostanza, ma sempre assai più e più generalmente che nello stato dispotico. La virtù è utile al pubblico necessariamente. Dunque il pubblico è necessariam. virtuoso o inclinato alla virtù, perché necessariam. ama se stesso e quindi la propria utilità. Ma la virtù non è sempre utile all’individuo. Dunque l’individuo non è sempre virtuoso, né necessariam. (…).
Ma in ogni modo l’individuo cerca il suo proprio bene, il pubblico cerca il suo (vero o falso, con mezzi acconci o sconci): questa è virtù sempre e in qualunque caso, quello egoismo e vizio (…). Anche lo stesso far corte a una nazione per ottenerne il favore, ingrandisce l’animo, ed è compatibile con la virtù. Il soggettarsi alla nazione è piuttosto grandezza che bassezza. Dove che il far corte all’individuo per cattivarsene la grazia, il soggettarsi ad un uomo uguale a voi, e nel quale non vedete nessuna buona e sublime ragione di predominio, nessuna bella illusione che nobiliti il vostro abbassamento (come accade riguardo alla nazione, la cui moltitudine pone quasi lo spettatore in una certa distanza, e la distanza dà pregio alle cose; alla nazione dove sempre si suppongono grandi e buone qualità in massa); tutto questo, dico, impiccolisce, avvilisce, abbassa, umilia l’animo, e gli fa ben sentire il suo degradamento, laonde è incompatibile con la virtù; perché chi ha forza di far questo, ha perduto la stima di se stesso, fonte, guardia e nutrice della virtù; e chi ha perduto la stima di sé, e consentito a perderla, e non se ne pente, né cerca recuperarla ec. o chi non l’ha mai posseduta né curata, non può assolutamente essere virtuoso. (26. agosto 1821.)”.
La citazione, vergata nello stesso anno del Bruto minore, ripropone l’aspetto forse più importante dell’ipostasi Bruto-Leopardi, e cioè il momento progressivo della loro situazione spirituale.
Bruto dopo l’uccisione di Cesare manda in revisione a Cicerone, come a vecchio maestro, e prima di pubblicarla, una concione tenuta al popolo. La parola di Bruto trova però in questo tempo e dopo quell’evento un’eco sempre più dolente nello spirito popolare romano[10].
Siamo al tramonto definitivo delle virtù eroiche che hanno fatto gloriosa Roma repubblicana. Si direbbe che l’amore di Bruto per il popolo, deluso o mal corrisposto, sia passato nel Leopardi che esalta la pubblica virtù grazie alla quale, invero, si realizza l’oikeiosis stoica, vale a dire quello spirito di attrazione che stringe l’individuo verso ciò che favorisce il proprio essere ed evita il contrario in una sfera comunitaria che si dilata fino alla cosmopoli. Cattivarsi l’individuo comporta, per via dell’abiezione dell’animo, rendersi indegno di qualunque amore o vantaggio; cattivarsi la moltitudine, invece, comporta la spinta verso tutte le nobili facoltà. In un’età in cui l’avanzamento e l’incivilimento hanno mortificato il popolo e la moltitudine e tolto loro ogni voce, Leopardi argomentando che il popolo, benché composto di individui animati da passioni basse, può essere cattivato solo con virtù, indica la legge del progresso, anche se trattasi sempre di un progresso pari o inferiore alla sapienza antica.
Uguale indicazione progressista, sempre in riferimento all’ipostasi Bruto-Leopardi, si rinviene nella lettera del 26 aprile 1819 da parte del poeta a Pietro Giordani, documento che viene citato dalla maggior parte dei critici. Noi tuttavia crediamo che meriti una particolare segnalazione quanto scrive Leopardi a Giulio Perticari a Pesaro da Recanati il 13 aprile 1821:
“(…) Era un tempo ch’io mi fidava della virtù e dispregiava la fortuna; ora dopo una lunghissima battaglia son domo e disteso per terra, perché mi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tristezza e la vanità delle cose, io come parecchi altri, ho conosciuto anche la tristezza e la vanità della sapienza. Le corti, Roma, il Vaticano? Chi non conosce quel covile della superstizione, dell’ignoranza e dei vizi? (…) Manca agli studi anche la speranza della gloria, ultimo inganno del sapiente (…)”.
E a Pietro Brighenti a Bologna il 22 giugno dello stesso anno, sempre da Recanati, Leopardi scrive così:
“(…) Io sto qui, deriso, sputacchiato, preso a calci da tutti, menando l’intera vita in una stanza in maniera che, se vi penso, mi fa raccapricciare. e tuttavia m’avvezzo a ridere, e ci riesco. E nessuno trionferà di me, finché non potrà spargermi per la campagna, e divertirsi a far volare la mia cenere in aria (…)”.
dove è anticipata di cinque mesi la fine del canto:
(…) A me dintorno
le penne il bruno augello avido roti
prema la fera, e il nembo
tratti l’ignota spoglia;
e l’aura il nome e la memoria accoglia”
(vv. 116-120).
Testimonianza idonea a confermare che il suicidio è un diritto morale, un privilegio del saggio stoico in quanto egli possiede la piena conoscenza e può assumere la responsabilità della sua decisione, ciò che invece è proibito allo stolto in quanto la vita stessa è premessa della vita morale, e stoltezza è al contrario dissoluzione e corruzione di un principio vitale, incapacità di adeguarsi all’ordine razionale dell’universo. Perciò lo stoico ripudia l’irrazionalità delle passioni che tendono a piegare la volontà dell’uomo.
[Virtù stoica e progressismo nel Bruto minore del Leopardi, in “Annuario” 1988-1989 del Liceo Scientifico Statale “A. Vallone” di Galatina]