2. L’esordio poetico
La formazione di Comi, com’è noto, non avvenne in Italia, dove egli frequentò soltanto alcune classi dell’Istituto «Capece» di Maglie e del «Palmieri» di Lecce, ma in Svizzera, dove dal 1908 proseguì gli studi in un collegio a Ouchy, presso Losanna. Qui respirò il clima avanguardista di quegli anni, scoprendo i movimenti che avevano rinnovato profondamente il panorama culturale tra Otto e Novecento, aprendo la strada alla «modernità» letteraria e artistica. Si formò soprattutto sui testi dei grandi poeti simbolisti francesi, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Verlaine che costituirono i suoi “fari” e lo influenzarono per tutto l’arco della sua attività.
Nel 1912, a soli ventidue anni, pubblica, presso un libraio tedesco ebreo di Losanna, Edwin Frankfurter, il suo primo libro di poesia, Il lampadario, che risente appunto dell’influenza del simbolismo e si colloca, più in generale, nell’atmosfera di reazione al positivismo che caratterizza quel periodo in Europa in campo culturale. Non a caso, il motivo principale è quello, antipositivista, della sconfitta della «Ragione», alla quale si contrappongono la tensione incessante verso l’ignoto e il senso del «mistero», come emerge anche dai seguenti versi:
Ma il tempo s’è abolito:
sulla cenere sua d’illusione
agonizza la fastosa Ragione:
s’affoga la mente nell’infinito
(305)[2].
Spicca perciò la figura dell’eroe che cerca di superare la realtà quotidiana, sfidando la sorte, attraverso la poesia che diventa strumento di elevazione e di conquista:
E solo lui di là sfida la sorte
sol lui d’un volo ogni volta attinge
come un dio salutare e veritiero
che di prodigi l’aria tinge
che illumina l’immortale Pensiero,
e che frenetico l’anima spinge ‒
all’onde di chiaror ‒ d’ogni mistero»
(296).
Accanto ad esso compare la figura femminile, scissa, secondo l’immaginario fin de siècle, tra una componente angelicata e una terrestre, per cui essa diventa «molteplice», provvista «d’un fascino doppio»:
E per essere a un tempo
sì ricca di profili verginali
e di desiri brutali / quali ignoti a noi
valicasti mari
a qual’onda bagnasti i luminari
capelli ed i tuoi seni vari
nei piaceri carnali?
(300).
Donato Valli ha rintracciato le fonti di questa raccolta nell’opera di alcuni scrittori francesi e belgi come Auguste Villiers de L’Isle-Adam, Émile Verhaeren e Charles Leconte de Lisle[3], ma in essa non manca nemmeno una certa influenza dannunziana, evidente nella ripresa di certe immagini ricorrenti, come le rose, i petali, i gigli, le mani. La raccolta, insomma, è un campionario di motivi simbolisti, decadenti e liberty e non presenta ancora quegli elementi di originalità che si ritrovano nelle successive opere del poeta, tanto è vero che successivamente venne da lui rinnegata.
La formazione di Comi prosegue e si completa a Parigi, dove si trasferisce nel 1912 e resta fino al 1915. La capitale francese era a quel tempo, com’è noto, il centro della cultura artistica e letteraria europea e richiamava i maggiori scrittori, pittori, musicisti da ogni parte del mondo. In quegli stessi anni, ad esempio, tra gli italiani, viveva a Parigi Giuseppe Ungaretti, proveniente da Alessandria d’Egitto, ma anche Ardengo Soffici, Giovanni Papini e Aldo Palazzeschi, i fondatori di «Lacerba»[4], si recavano spesso lì e con essi probabilmente entrò in contatto Comi, il quale conobbe e strinse rapporti di amicizia con alcuni dei massimi rappresentanti della letteratura francese, quali Émile Verhaeren, Paul Claudel, Rémy de Gourmont, Paul Valéry.
- La prima fase della poesia di Comi
Ritornato in Italia e stabilitosi a Roma, dopo la drammatica esperienza militare vissuta negli anni della guerra e il matrimonio con Erminia de Marco, Comi riprende l’attività letteraria, pubblicando durante gli anni Venti alcune plaquettes in prosa e in versi, che incominciano a delineare compiutamente la sua singolarissima fisionomia di letterato, completamente fuori dagli schemi consueti. Nel 1920 esce la Lettera a Giovanni Papini poeta, una «stroncatura», proprio alla maniera papiniana, delle poesie dello scrittore fiorentino, che sono definite «posticce, pasticciate nell’argilla di un vocabolario da bluff»[5]. È, questo, il primo di tutta una serie di giudizi negativi sulla poesia italiana del Novecento, che Comi, già da allora, sentiva irrimediabilmente lontana dalla sua.
Nel 1920 e nel 1921 vedono la luce anche due operette in prosa, Vedute di economia cosmica e Riposi (festivi), stampate a Roma, nelle quali si nota la suggestione dell’ambiente culturale parigino ma anche di certi sviluppi della letteratura italiana, tra «frammento» vociano e lacerbiano e «prosa d’arte» rondista. Si tratta di due raccolte organiche di «pensieri, battute, paradossi, sarcasmi intessuti con fine ironia e mantenuti su un filo sottilmente ambiguo tra misticismo e anarchismo»[6]. Esse si configurano, secondo la definizione di Marinella Cantelmo, che le ha attentamente analizzate, come una sorta di «autobiografia intellettuale»[7] nella quale emerge il motivo del dissidio tra l’artista e la società con i suoi valori sociologicamente normali fondati sulla quantità e sull’esteriorità (l’avere). Ad essi l’io narrante, che si definisce «l’impiegato (esonerato)», oppone un proprio sistema di controvalori, fondato sulla qualità e sulla valorizzazione dell’interiorità (l’essere), che però sono rifiutati dalla società. Da qui la «sconfitta» del poeta-protagonista, il quale al mancato riconoscimento del prestigio sociale reagisce con l’isolamento, rifugiandosi in una dimensione «cosmica» e quindi metastorica. Questi due scritti, insomma, si possono considerare anche come una esposizione (sia pure cifrata) di poetica alla quale Comi si attiene sostanzialmente fino alla fine della sua attività letteraria.
Nel 1920 egli pubblica anche la prima delle quattro raccolte, con le quali ha inizio la sua poesia più originale: Lampadario. Ad essa seguiranno I rosai di qui (1921), Smeraldi (1925) e Boschività sotterra (1927). Tutte usciranno in raffinate autoedizioni, stampate presso uno stabilimento tipografico romano, Garroni, e tirate in un numero ridottissimo di esemplari (si arriva ai sette dello splendido Smeraldi, uno dei libri di poesia più rari del Novecento!). La prima di esse ha lo stesso titolo, ma senza l’articolo, del volume del 1912, già rifiutato da Comi. Ma mentre allora questo termine aveva ancora un vago sapore liberty, ora invece ha una valenza simbolica in quanto lampade e lampadari hanno avuto sempre un evidente legame con la luce come manifestazione dell’illuminazione divina. Comi, quindi, fin dall’inizio, mette all’insegna della luce, cioè di una ricerca della spiritualità, la sua poesia, rifiutando la letteratura di tipo commerciale. Significativa è la dichiarazione di poetica che figura in un foglio a parte inserito in Boschività sotterra: «E nessuno, invero, meglio di noi è oggi in grado e in diritto di assumere questa attitudine prepotente se pensiamo che, liberati dall’assillo della vendita e del successo ‒ [poiché finalmente nessuno ci compra e nessuno ci legge] ‒ possiamo affermarci e valorizzarci per noi stessi in noi stessi»[8].
Queste quattro raccolte saranno antologizzate dallo stesso autore nel 1929 nel volume Poesia 1918-1928, che comprende anche 25 liriche nuove e il Cantico dell’albero, già apparso sulla «Nuova Antologia» il 1° agosto 1928. Nasce qui, dunque, la poesia «cosmica» di Comi, come venne definita, in una recensione di quel libro, da Sergio Solmi, il quale così scriveva a un certo punto: «Anche la poesia del Comi appare prender le mosse da un senso panteistico dell’universo, intento a cogliere negli aspetti naturali simboliche e misteriose ‘corrispondenze’, in un’aura di trionfante panismo magico»[9].
In effetti, il motivo cosmico e panteistico caratterizza la prima fase della poesia di Comi, almeno fino alla sua conversione al cattolicesimo. Su di esso ha avuta un’influenza decisiva la dottrina antroposofica di Rudolf Steiner secondo il quale bisogna congiungere lo spirituale presente nell’individuo con lo spirituale presente nell’universo fino ad arrivare a un’assoluta identificazione. Da qui anche il tentativo, da parte di Comi, di ritrovare con la «magia» della parola le forze e il ritmo interno che regolano l’«architettura» dell’universo, in vista di una palingenesi, di una redenzione della materia, cioè del ritorno finale del tutto all’unità originaria.
Questo motivo emerge già nella prima poesia dei Rosai di qui, che figura non a caso anche all’inizio di Spirito d’armonia, la raccolta del 1954, nella quale Comi seleziona la sua precedente produzione poetica. Qui la contemplazione di sfolgoranti paesaggi, descritti con acceso colorismo, si coniuga all’ebbrezza di una immersione panica nella natura e al desiderio di comunione col creato:
I rosai di qui sono:
un fiammante abbandono
d’efflorescenze pensose
soffici d’universi
tutti a ghirlande ‒ emersi
da profondità… Rose!… ‒
I rosai di qui ‒ biondo
clamore di calde spalliere
di luce ‒ vivai di raggiere
di porpora e viola profondo… ‒
Vergini continuità: ‒ Rosai
arrovesciati o sommersi
in soffici sonni-universi
o arrampicati a telai
d’odoroso turchino: ‒ Rose…
‒ efflorescenze [d’aurore] impetuose…
(15),
In questi versi si noteranno anche gli arditi procedimenti analogici e sinestetici, nonché le costanti suggestioni foniche che, sull’esempio del simbolismo francese, caratterizzano la composizione.
La tecnica sinestetica, d’altra parte, è presente anche in altre composizioni come la seguente, che fa parte di Smeraldi:
Sento i violini del sole
in archi-viola-di-suoni
ardere sulle corolle
ed incendiarne gli aromi…
Velario di pollini s’orla
di glauche gole d’aurore
o s’intride del multicolore
clamore delle corolle…
Sento i violini del sole
in arcobaleni d’accordi
sprofondare nei caldi ricordi
d’impetuosissime flore…
Combustione odorosa
di nudità di giardini
sotto i violenti violini
della luce lussuriosa…
(17),
dove il “suono della luce”, percepito dal poeta con una sorta di veggenza soprasensibile, equivale, per l’appunto, alla voce dello Spirito che arriva dagli spazi siderali e sembra compenetrarlo.
In alcune liriche della raccolta del ’29 sembra che Comi si immedesimi quasi con gli elementi minimi della natura, come se volesse rinnovare con la magia della parola il miracolo della creazione. Così scende a contatto con il seme, la radice, il fiore, il sasso, sentendone il travaglio formativo. Si legga la seguente poesia tratta da di Boschività sotterra:
Io mi sento tutto giacere
radice di polpe solari
in fratture d’ossami e di miniere
di smeraldi e graniti vetusti
vellutati di selve di mari
screpolati di primavere
e sepolti in rugiade di muschi ‒
fra tanti riflessi affratella
il mio respiro corale
midolli di roccia e di perla
e di pensiero carnale:
e la mia fame s’addorme
più sotterranea, o sale
al vertice che dissolve
la sua lussuria solare.
In Poesia del ’29 Comi pubblica anche una composizione dedicata alla sua terra, Immagine del Salento, del tutta priva di elementi descrittivi e di riferimenti a luoghi concreti e affidata invece a immagini simboliche e archetipiche che rinviano ancora una volta alla misteriosa, “magica” unione tra io e natura:
Numeri, figure e libri,
simboli d’una Misura
silenziosa e sicura,
fanno che io riposi o vibri
‒ vivo di sobri equilibri
nell’ossame della Natura.
Cristalli di luce varia
spaccano l’ozio dei suoli
per fecondarlo di voli
di cantici, d’aromi e d’aria,
e perché l’ansia del dire
s’incanti nelle matrici
rocciose delle radici
e nel loro sordo fiorire.
- La poetica
Gli anni vissuti a Roma, per Comi, sono assai intensi e ricchi di esperienze di vario genere. In questo periodo egli partecipa ad alcuni sodalizi esoterico-letterari, con altri scrittori e intellettuali dell’epoca come Arturo Onofri, Nicola Moscardelli, Raffaello Prati, Julius Evola. Fa parte del cosiddetto Gruppo di «Ur» e tra il 1928 e il 1930 collabora alle riviste dirette da Evola, «Ur», «Krur», «La Torre»: Successivamente, tra il 1934 e il ’35, pubblica anche alcuni scritti su «Diorama filosofico», pagina culturale del «Regime fascista», curata sempre da Evola[10]. Insieme a Onofri e Moscardelli dà vita alle edizioni «Al Tempo della Fortuna», dove escono raccolte poetiche dei tre fondatori, ma anche di Corrado Govoni, Raffaello Prati e altri.
Un rapporto assai importante per il poeta salentino, negli anni romani, fu anche quello con Ernesto Buonaiuti, sacerdote e storico delle religioni, uno dei principali esponenti del modernismo, da lui conosciuto ai funerali di Arturo Onofri nel 1928. I colloqui con Buonaiuti e col padre gesuita André de Bavier lo portarono nel 1933 alla conversione al cattolicesimo, alla quale contribuì anche la riflessione sugli scritti di san Paolo, san Tommaso, Dante e Pascal che egli considerava i suoi maestri[11].
In questi anni pubblica anche alcune opere in prosa nelle quali espone la sua poetica e le sue riflessioni in campo religioso e sociale: Poesia e conoscenza (1932), Commento a qualche pensiero di Pascal (1933), Necessità dello stato poetico (1934), Aristocrazia del cattolicesimo (1937), Bolscevismo contro cristianesimo (1938). Ebbene, la concezione comiana della poesia non aveva alcun rapporto con quella di altri autori o movimenti letterari di quegli anni. Da qui la sua radicale diversità, la sua alterità, e quindi anche la sua sostanziale estraneità, come s’è accennato, rispetto alle correnti novecentesche, che Pier Paolo Pasolini invece, scambiò per un congenito «ritardo» del poeta rispetto ad esse[12]. Questo è anche il motivo della difficoltà che la critica in genere ha sempre trovato nel dare un’esatta collocazione all’opera di Comi. L’unico poeta con il quale è possibile istituire un preciso raffronto è Arturo Onofri con il quale egli ebbe un intenso sodalizio nel periodo romano, troncato dalla morte precoce di quegli[13].
Come Onofri, infatti, Comi rifiuta quel tipo di poesia che mette al centro del proprio interesse l’io, le angosce individuali, le inquietudini esistenziali, i propri sentimenti, cioè la poesia di tipo lirico. La poesia, per entrambi, deve essere un’attività di tipo totalizzante, a cui bisogna riservare una dedizione assoluta, rifuggendo volutamente, con profonda convinzione, la gloria, il facile successo, l’applauso del pubblico. Non a caso Comi parla di «stato poetico», che è «una presa di posizione e di possesso incisiva e corale dello spirito umano, o se si preferisce, una identificazione ininterrotta e impegnativa dei valori immanenti di sé e delle linfe oceaniche del cosmo»[14], dove ritorna ancora una volta l’influenza della dottrina steineriana. Il poeta vero, perciò, deve svolgere un’attività di tipo sacerdotale, in quanto il fine dell’arte è quello di ricondurre il mondo fisico a quello spirituale, redimendolo, in vista di quel ricongiungimento finale col tutto, con l’assoluto, col divino, che, secondo la visione di Steiner, sarà la tappa conclusiva nella storia dell’umanità.
La poesia può svolgere questo compito tra gli uomini attraverso l’azione della «parola-Verbo», un concetto centrale in Comi come in Onofri. Entrambi avevano fiducia nel valore magico della parola, che all’inizio del Vangelo di Giovanni si dice essere il principio di ogni cosa. In essa, com’è noto, il Cristianesimo identifica il figlio di Dio fatto uomo, il Cristo a cui anche l’antroposofia steineriana, che è poi una forma di cristianesimo esoterico, attribuisce un ruolo decisivo come asse e motore dell’evoluzione cosmica. La «parola-Verbo» permette al poeta di continuare in un certo senso l’opera del Cristo, immettendo negli uomini la «semenza» (come la chiama Comi), la quale, proprio come il seme nascosto nella terra, darà i suoi frutti, perché li porterà a scoprire il divino che c’è dentro di loro, e avrà perciò una funzione palingenetica, di redenzione e di salvezza. La parola è definita «magica» perché, come spiega il poeta, «per suo mezzo si attua la certezza della comunione con l’assoluto. Più si ha fede nella funzione magica della parola, meglio si risolve il dramma dato, proposto e congenito all’uomo»[15].
La parola, quindi, è anche comunione perché permette agli uomini di entrare in contatto col trascendente, prendendo coscienza di questa verità. Da qui l’equivalenza che si stabilisce tra poesia e conoscenza: «Poetare e conoscere – scrive Comi ‒ diventano dunque due luminosi e illuminativi sinonimi»[16]. Perciò la poesia, per lui, è «la coscienza del divino che è in me»[17].
Il concetto di «parola-Verbo» contribuì a far superare a Comi quella concezione panica e immanentistica che, come s’è detto, caratterizza la sua produzione fino a Poesia del 1929 e a portarlo gradualmente verso l’integrale accettazione del Credo cristiano. Sono significativi, a tale proposito, due brani scritti a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, nei quali ritorna sul concetto di panicità. Al 1932 risale la seguente riflessione:
Io, in un primo tempo, quando l’eccessiva gioventù non mi permetteva e non mi lasciava il tempo di approfondire certi miracoli della natura, mi beavo e mi annullavo davanti allo spettacolo del mondo senza preoccuparsi di andare oltre. Oggi sento il bisogno fisiologico, oltre che spirituale, di collegare e saldare l’impeto della mia sempre più giovane meraviglia al gigantesco palpito di qualche magica armonia prestabilita. Non mi accontento più dell’estasi o di una vaga coscienza panico-sessuale, ma devo e voglio riprendere contatto, quotidianamente e bene o male, con l’ordine magico e misterioso che governa il cosmo[18],
dove, come si può vedere, siamo già nell’ambito di una religiosità, ma ancora di tipo esoterico, antroposofico («l’ordine magico e misterioso che governa il cosmo»). Ben diverso è il brano di Aristocrazia del Cattolicesimo, del 1937, dove ormai questa religiosità è sfociata nella conquista definitiva della fede cattolica:
Partito come molti da un quasi orgiastico culto dell’Io, posseduto e nudrito da un rutilante tenebrore di stati d’animo panteistici e panici, sono sboccato, ‒ non senza gaudiose e perigliose soste negli arcipelaghi delle più avvincenti eresie ‒ nel riconoscimento totalitario di Dio[19].
[InG. Comi, Poesie. Spirito d’armonia, Canto per Eva, Fra lacrime e preghiere,
a cura di A. L, Giannone e S. Giorgino, Neviano (Le), Musicaos Editore, 2019].
[1] Attualmente è disponibile soltanto la ristampa anastatica di Spirito d’armonia, a cura di M. Albertazzi, con un saggio di D. Valli, La Finestra, Trento 1999.
[2] Tutte le citazioni delle poesie di Comi sono tratte da G. Comi, Opera poetica, a cura di D. Valli, Longo, Ravenna 1977. Tra parentesi il numero di pagina.
[3] Cfr. D. Valli, Preistoria di Comi, in Id., Girolamo Comi, Milella, Lecce 1977, pp. 33-77. A questo saggio si rimanda per un’analisi della prima raccolta di Comi.
[4] Proprio sul primo numero del 1914 della rivista fiorentina figura una curiosa inserzione pubblicitaria, finora sfuggita all’attenzione degli studiosi, secondo la quale ai primi di quel mese sarebbe dovuta uscire un’opera di Comi, Libretto senza titolo seguita da Paesaggi spirituali, in 35 copie numerate, che si potevano prenotare all’indirizzo dell’autore: «Square I. Olivier B. Lausanne». Quest’opera però non risulta essere mai stata pubblicata.
[5] G. Comi, Lettera a Giovanni Papini poeta, Tipografia Giovanni Raeli, Tricase 1920, p. 4 (ma l’opuscolo non è numerato).
[6] D. Valli, Il misticismo dell’intelligenza: profilo di Girolamo Comi, in Id., Anarchia e misticismo nella poesia italiana del primo Novecento, Milella, Lecce 1973, p. 341, nota.
[7] M. Cantelmo, Girolamo Comi prosatore. Dalle fonti intertestuali alle «lingue» interdiscorsive, Capone, Cavallino di Lecce 1990, p. 80.
[8] La dichiarazione è riportata in G. Comi, Opera poetica cit., p. 429.
[9] S. Solmi, Poesia cosmica, in «L’Italia letteraria», ii, 9, 2 giugno 1929.
[10] Sul rapporto con Evola e la collaborazione di Comi alle riviste evoliane cfr. G. Montonato, Comi-Evola. Un rapporto ai margini del fascismo, Congedo, Galatina 2000.
[11] Sul pensiero religioso di Comi cfr. G. Langella, La «Civitas Christiana» di Comi tra Gioberti e La Pira, in Girolamo Comi. Atti del Convegno Internazionale (Lecce – Tricase – Lucugnano, 18-20 ottobre 2001), a cura di P. Guida, Milella, Lecce 2002, pp. 169-202.
[12] Cfr. P. P. Pasolini, Una linea orfica, in «ParagoneLetteratura», v, 60, dicembre 1954, ora in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di W. Siti e S. de Laude, con un saggio di C. Segre, Mondadori, Milano 1999, tomo i, pp. 572-581.
[13] Sul rapporto con Onofri ci sia permesso di rinviare a A. L. Giannone, Comi e Onofri, in Girolamo Comi. Atti del Convegno Internazionale cit., pp. 251-270.
[14] G. Comi, Necessità dello stato poetico, Al Tempo della Fortuna, Roma 1934, p. 22.
[15] Ivi, p. 185.
[16] Id., Poesia e conoscenza, Al Tempo della Fortuna, Roma 1932, p. 14.
[17] Id., Necessità dello stato poetico cit., p. 123,
[18] Ivi, p. 102.
[19] Id., Aristocrazia del Cattolicesimo, Guanda, Parma 1937, p. 28.